Verde, bianco e rosso

Fuggire o investire ancora sul Bel Paese? Il libro del giornalista Bill Emmott e la sua ricerca della Buona Italia
Giovani

Bandiere tricolori, in giro, non se ne vedono. Anche quelle esposte per sostenere gli azzurri all’ultimo Mondiale sudafricano, sono state in fretta e furia rimosse, dopo tre misere partite. Quella sequenza di verde, bianco e rosso che avrebbe dovuto gonfiarci il petto, abbiamo cominciato a considerarla non più solo il simbolo un po’ sgualcito di una squadra vecchia e priva di idee. Piuttosto come l’immagine stessa di un intero Paese stropicciato e immobile, che i giovani li lascia da sempre in panchina, e che in campo (come Lippi) manda alla fine quelli che non lo meritano, gli amici brocchi, ma raccomandati.

 

Malgrado le sconfitte pallonare però, qualche speranza l’avevamo riposta sul 2010 appena concluso. Doveva essere l’anno del Risorgimento, quello in cui sentirsi finalmente orgogliosi di essere figli di cotanta stirpe. Di quei Mille partiti da Quarto, e poi di Cavour, Mazzini e dei tanti altri ignoti che, con il loro sacrificio, ci hanno reso fratelli, come Mameli poi pomposamente cantò. Ed invece.

 

Saranno pure trascorsi 150 anni esatti da quando possiamo dirci figli di un solo Paese, cittadini di un unico Stivale. Ma di fare festa, di questi tempi (tra governi che vanno ed escort che vengono) nessuno sembra aver più molta voglia. E ad alcuni è tornato in mente il ritornello profetico di uno che ci vedeva lungo, Giorgio Gaber: «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono». E forse, è proprio così che ci si sente anche oggi: incerti se considerare il Belpaese una condanna o una possibilità, un posto da cui fuggire subito o su cui ancora investire.

 

A ridare un po’ di coraggio è in questi giorni un buon libro, Forza, Italia. Come ripartire dopo Berlusconi (Rizzoli), un saggio diventato in poche settimane un caso editoriale. Lo ha scritto un giornalista inglese, Bill Emmott, per tredici anni direttore di uno dei santuari del capitalismo mondiale, il settimanale The Economist, quello che una volta, con una copertina passata alla storia, definì Silvio Berlusconi unfit, inadatto a governare.

Emmott, dopo aver scritto libri su Giappone e America, varca adesso le Alpi con la curiosità e l’intuito del cronista, lo scrupolo e il culto dei numeri dell’economista, l’amore per il nostro Paese del turista. È innanzitutto sorpreso di trovarsi davanti non il regno del sole e dell’ottimismo (come stereotipo vuole), ma piuttosto un Paese sfiduciato e depresso, pessimista come nessun altro in Europa.

Ci scopre sì divisi, ma non come si direbbe dalla geografia (Nord-Sud) e neanche soltanto dalla politica (pro e contro Berlusconi). Piuttosto per Emmott a spaccare la penisola in due è la morale. C’è una Mala Italia e una Buona Italia. La prima (al momento vincente) è parassita e arrogante, pensa solo a sé e ai propri affari. Le organizzazioni criminali e una fetta della classe politica ne fanno parte, ma poi l’atteggiamento è ampiamente condiviso anche nella società civile.

E c’è poi l’altra Italia (quella buona) che invece, lontano spesso dai riflettori, si ostina a inseguire il meglio e il nuovo, ad essere solidale e aperta.

 

Ed è proprio questa parte positiva, che Emmott ostinatamente cerca e racconta nel suo libro. Amministratori virtuosi e imprenditori illuminati, associazioni coraggiose e giovani tenaci. Una mappa di eccellenze e risorse sulla quale l’Italia può contare per risollevarsi, ma di cui sottovaluta le potenzialità o peggio, spesso ignora addirittura l’esistenza.

Il punto di vista del giornalista (privilegiato perché esterno), al netto di un po’ di manicheismo, di alcune distorsioni prospettiche e di qualche giudizio discutibile, è però uno specchio fedele nel quale rifletterci per scoprire quel che davvero siamo oggi.

Emmott fa anche un passo in più. Prova a dirci come potremmo essere, indicandoci alcune proposte concrete per uscire dalla crisi: nuova legge elettorale e riforme del lavoro, giustizia più rapida e vera concorrenza, drastica riduzione della spesa pubblica e investimenti in conoscenza e ricerca. Un elenco di progetti (che avrebbe fatto la sua bella figura da Fazio e Saviano) che ha il sapore un po’ retro del programma elettorale.

Un attrezzo d’altri tempi, che nella politica delle facce e degli slogan, non sappiamo più cosa davvero sia. E invece è proprio da qui, dalle cose da fare e dalle forze sane del Paese pronte a farle, che bisogna ripartire. «Il motivo per cui l’Italia vola e non si schianta tragicamente al suolo – conclude Emmott –, è che la sua parte buona le impedisce di farlo, reagendo a quella cattiva, ricacciandola indietro. Talvolta ci riesce appena in tempo. Potrebbe farlo ancora. Se lo si volesse abbastanza».

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