Venezuela: fallisce il Gruppo di contatto

Unione Europea e un gruppo di Paesi sudamericani prendono tre mesi per cercare di aiutare a superare la crisi. Ma perché si vuole intervenire in Venezuela e non in Arabia Saudita? Eppure i diritti umani sono violati in entrambi in Paesi…
Nicolas Maduro

Nessuno poteva aspettarsi una posizione unitaria sulla situazione in Venezuela dalla riunione di Montevideo del Gruppo internazionale di contatto. Se, di per sé, l’Unione europea già arrivava divisa sulla crisi del regime di Nicolás Maduro, i Paesi latinoamericani non lo sono meno: Uruguay e Messico, promotori dell’iniziativa, si discostano notevolmente dal resto dei governi della regione che hanno riconosciuto subito Juan Guaidó come presidente ad interim.

L’uruguayano Tabaré Vázquez, sebbene riconosce che esistono problemi di rottura dell’ordine democratico, è, insieme al messicano Andés Manuel López Obrador, contrario a una forzatura esterna ed è ancora meno disponibile a riconoscere la dubbia legittimità dell’oppositore autoproclamatosi presidente. La soluzione per entrambi deve passare attraverso gli strumenti del dialogo e della diplomazia, senza forzature e meno ancora accarezzando, come fa la Casa Bianca – sia solo come mera ipotesi –, la possibilità di un intervento militare.

Una posizione che rispecchia anche quella della Chiesa che, per bocca dello stesso papa Francesco, ha ricordato che per una mediazione le parti devono richiederla ed essere disposte a negoziare. Tra gli altri Paesi convocati a Montevideo, la Bolivia si colloca direttamente in difesa del regime chavista, al punto da non aver firmato la dichiarazione finale, nella quale si riconosce l’esistenza di una situazione altamente problematica. Sono più cauti Ecuador e Costa Rica. Il Gruppo di contatto si è dato tre mesi di tempo per cercare di facilitare le cose e, in questo momento, di cercare di far arrivare gli aiuti umanitari che Maduro vede come uno show mediatico, una minaccia ed anche una ammissione di una situazione drammatica.

A questo proposito, è evidente come una pressione internazionale coordinata a favore delle popolazioni civili e per il rispetto dei diritti umani fondamentali nell’attuale crisi, oltre che per l’apertura di un tavolo negoziale, potrebbe sortire un certo effetto vista la gravità della situazione; ma gli interessi dei vari attori internazionali sono così divergenti, soprattutto per via del petrolio venezuelano, che la pressione internazionale in realtà avviene in ordine sparso (vedi le posizioni europee) e fuori dal quadro Onu.

Ma ormai sul tema spesso si ragiona solo in termini ideologici. Dalla Casa Bianca, Donald Trump torna ad aizzare gli statunitensi contro la minaccia del «socialismo», e cioè Cuba, Venezuela e Nicaragua, che sono parte di un contagio che bisogna evitare sia fuori che dentro le frontiere, pur se negli Usa ormai non si trovano tracce di tale ideologia, come ha segnalato in questi giorni il Nobel dell’economia Paul Krugman. Ciò nonostante, è una teoria condivisa da figure come il presidente brasiliano Jair Bolsonaro o il colombiano Iván Duque, che hanno pure loro dimostrato una certa propensione ad utilizzare tale tema internamente.

Eppure, esistono solide obiezioni in merito alla situazione e a come eventualmente appoggiare una via d’uscita in Venezuela. La prima è che pare proprio difficile legittimare un processo che prescinda dal rispetto dello Stato di diritto: se il mandato di Maduro è carente di legittimazione, quello di Guaidó non offre maggiori appigli. Chi potrebbe risolvere il dilemma dal di fuori? L’oppositore, del resto, in questi giorni ha segnalato che non c’è da dialogare con Maduro, rifiutando indirettamente la mediazione della Chiesa, il che rende ancora più difficile la situazione politica, se davvero si vuole evitare un nuovo bagno di sangue.

La seconda obiezione, quella di maggior peso, è che non tutti sono disposti ad obbedire ai diktat provenienti della Casa Bianca o da chicchessia, secondo gli interessi del momento. Qualcuno dovrebbe infatti spiegare per quale ragione non vengono adottate sanzioni e bloccato il commercio ad esempio contro l’Arabia Saudita, alla quale la Casa Bianca, l’Eliseo ed altri, direttamente o indirettamente, si affannano a vendere armi per miliardi di dollari, nonostante sia chiaro a tutti che è un governo che viola i diritti umani in modo ancora più grave di Caracas. Se la questione sono i principi democratici e i diritti umani che si ritiene indispensabile rispettare e difendere per far parte della comunità internazionale, una volta per tutte il criterio da applicarsi dovrà essere quanto meno imparziale. Per l’ennesima volta tale nodo viene al pettine e non c’è campagna mediatica che possa evitare di far notare tale contraddizione.

 

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons