Venezia viaggia intorno all’uomo

Cina sempre più vicina. Insieme a Giappone, Corea e Malesia, presenti in gran forma al Festival con lavori in bilico fra strizzatine d’occhio all’Occidente, ritorno al mito: soprattutto, analisi del processo di immenso cambiamento del gigante-Cina. È appunto questo il soggetto del film vincitore del giovane Zhang-Ke (35 anni, vecchia conoscenza a Venezia) – che pochi hanno potuto vedere, perché proposto come sorpresa in orari difficili… -: un viaggio tra il surreale e il nostalgico di un operaio e di una infermiera dentro un Paese in corsa forsennata verso la modernità, con una storia ambientata in un villaggio stravolto dalla costruzione della diga delle Tre Gole. Premio meritato oppure omaggio, come tradizione, al politicamente corretto dell’attualità nostrana, che vede il rapporto economico con la Cina in prima posizione. Il pubblico deci- derà su quest’opera, che, peraltro, presenta momenti molto belli. Anche l’Occidente guarda alla Cina che cambia con l’occhio molto personale e quasi simbolico di Gianni Amelio nel suo La stella che non c’è. Film che avrebbe meritato attenzione da parte della giuria, perché è una metafora delicata e anche autobiografica sul bisogno di un ideale e sul valore della dignità umana minacciata dagli eccessi del progresso. Ma se Amelio non ha avuto riconoscimenti ufficiali, il Leone d’argento- rivelazione è andato a Emanuele Crialese che, a quattro anni dallo splendido Respiro (che lo aveva già rivelato, a dire il vero), con Nuovomondo tratteggia con poesia e struggimento il passaggio epocale dall’uomo antico a quello moderno , narrato in forma tra il reale e il mitico mediante la storia di una famiglia siciliana nel suo viaggio di migrazione in America. Se infatti la componente realistica è ben presente sia nelle luminose riprese dell’interno siciliano come nell’accoglienza americana all’arrivo, la narrazione di Crialese solleva continuamente il racconto alla dimensione onirica e mitica, così che il Nuovomondo diventa la terra del latte e miele in cui navigano i protagonisti nella scena finale, da una parte; dall’altra, una riflessione sottile sul rispetto delle diverse culture, con un messaggio di pregnante attualità. Che in questo film si possano coniugare epos, mito e intimismo senza sbavature sentimentali o narrative, depone un grosso punto a favore sulla vitalità del cinema italiano, che moribondo – come pensano forse in troppi – proprio non è. Cinema che viaggia intorno ai sentimenti. Lo fa il maestro Alain Resnais, sempre misurato e introspettivo, nel suo Private fears in public place (Piccole paure condivise, Leone d’argento per la regia), in cui una piccola umanità cittadina – impiegati, segretarie, un malato terminale… – si agita intorno al desiderio di scrollarsi di dosso la solitudine, cercando la condivisione con gli altri, per godere momenti di possibile gioia. Ma quando l’esperienza del dolore si è trasformata in tragedia personale e collettiva, riprendere a vivere – e perdonare – diventa oltremodo difficile. Così è per Atim, giovane del Ciad che riceve il compito di uccidere l’assassino del padre, alla fine di una tremenda guerra civile… Un viaggio di vendetta che tuttavia si trasforma gradualmente in riconciliazione, grazie ad un percorso tortuoso ma definitivo di conoscenza fra il ragazzo e l’omicida. Mahamat-Saleh Haroum, 46 anni, giustamente riceve il Premio speciale della Giuria per questo suo film, intitolato significativamente Siccità (Daratt): una siccità non solo fisica, ma spirituale. Questa arsura, e la voglia di uscirne fuori, colpisce la famiglia occidentale prendendola di petto. Succede in Nue propriété (Nuda proprietà) del belga Joachim Lafosse. Due gemelli vivono insieme alla possessiva madre divorziata, come eterni bambini. Ma quando lei si decide per una nuova vita, scoppia fra i due un conflitto violento. Saran- no alla fine i due genitori, raccogliendo i pezzi di un tavolino rotto durante la lotta fra i ragazzi, a tentare di raccogliere, se non la loro vita, almeno i sentimenti. Ne L’intouchable (L’intoccabile) del parigino Jacquot una giovane attrice invece viaggia per l’India a cercare il padre assente. Lo scopre, non si rivela: ma almeno ha trovato una parte di sé che le mancava. In fondo, si tratta di una immensa voglia di amare. La Russia ancora una volta gioca bene la partita, proponendo in Ejforija (L’euforia) del siberiano Ivan Vyrypaev la gioia di due giovani che, in una terra stepposa, sterminata, vivono il loro amore contrastato fino alla morte cosciente. Una sorta di Tristano e Isotta narrato dall’anima profondamente malinconica e mistica russa. La quale, nel film di chiusura, Ostrov (L’isola) di Pavel Lounguine, discende con toni dostoevskiani sul dilemma rimorso- perdono, nella storia di un monaco guaritore, omicida involontario in gioventù, fra i deserti ghiacciati dell’Artico. Un film di spiritualità formidabile, con una fotografia abbagliante e dialoghi serrati e scarni, purtroppo proiettato a fine festival. E l’America? Non ha fatto la parte del leone ruggente, quest’anno, ma si è fatta sentire. Con il Leone d’oro alla carriera a David Lynch (che ha presentato le tre ore del cervellotico Inland Empire), il premio miglior attore a Ben Affleck per il ruolo di Superman in Hollywoodland, l’ossessivo The Black Dalia del maestro Brian De Palma… Naturalmente, non si deve pensare ad un Festival troppo serioso, ma di qualità. Superiore, forse, all’edizione del 2005 e senza troppi cedimenti alla mode imperanti. Così alla satira caustica al mondo della moda ne Il diavolo veste Prada con una scoppiettante Meryl Streep ha risposto la favola onirica del Flauto magico rivisitato da Kenneth Branagh; al forte docufilm Il mio paese di Daniele Vicari ha fatto eco il Pasolini prossimo nostro di Giuseppe Bertolucci, a dire ancora la creatività del nostro cinema. Nonostante l’aria di attesa della Festa del cinema a Roma, che qua e là pareva aleggiare, la rassegna veneziana ha tenuto alta la testa, giocando, quasi sempre, la sua carta migliore. Quella del cinema come fatto d’arte. Il che non è cosa da poco.

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