A Venezia storie di donne

Le protagoniste femmili sono al centro delle storie del festival del cinema. Una rassegna che quest'anno si segnala per la buona qualità dei film.

Una sorpresa piacevole, nell’attuale rassegna veneziana, è la qualità medio-alta dei film. Al di là delle passerelle attoriali, che piacciono ai protagonisti (italiani, in particolare), ai fan e danno lustro a Venezia, riportandola in qualche modo ai fasti del passato, ci sono appunto i film. I quali hanno in genere un difetto, però: sono troppo lunghi.

Lunghe sono tutte (o quasi) le storie di donne che sono uno dei temi forti della rassegna. La Famiglia, opera seconda in concorso del catanese Sebastiano Riso,  è un melodramma tragico che racconta la storia – basata su fatti veri di cronaca – di una donna che fa figli e poi li vende.

Un mondo sommerso in Italia come altrove. Lei è Maria (Micaela Ramazzotti), ragazza di Ostia pallida, morbosamente attaccata al marito Vincenzo (Patrick Bruel, una celebrità in Francia), personaggio ambiguo e cinico che vende i bambini in combutta con un medico di pochi scrupoli. Nessuno si chiede se ciò che fa sia etico o meno. I clienti sono coppie etero ed omosessuali: l’importante è che paghino.

In una Roma surreale, lancinante e cupa, più metaforica che vera, la coppia vive la propria esperienza, finché lei si decide a tenere almeno l’ultimo bambino, che partorisce da sola, perchè l’uomo l’ha chiusa in casa. Una coppia gay rifiuta il bambino, malato, e l’uomo decide di buttarlo via. La madre disperata lo cerca.  Lo troverà?

Dramma cupo a forti tinte, troppo lungo e talora pesante di retorica, con una musica ossessiva e una recitazione affannosa (la Ramazzotti ha voluto tentare un ruolo che forse le è superiore), indaga sulla problematica dell’utero in affitto (qualche battuta ideologica  appare, ovviamente), ma è soprattutto un dramma sulla maternità negata, se è vero che una delle scene più riuscite è quella di Maria a terra, ha appena dato alla luce il bimbo, è sfatta eppure tenera e aggrappata alla creatura che non vuol perdere. Lavoro ambizioso, forse troppo.

Ambiziosi, ma di gran classe sono altri racconti. Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonmagh è ancora un film su una madre. Mildred (una grande Frances McDormand) è testardamente alla ricerca di verità sull’omicidio della figlia: deve lottare contro l’ottusità della polizia, l’ambiente razzista e violento della provincia americana. È l’America guardata dall’esterno da parte del regista anglo-inglese.

Ma la vicenda nasconde quella che è la ricerca della verità più profonda, ossia la presenza del male nella vita umana. E se essa era data per scontata, senza alcuna riflessione, nel film italiano, qui è la base sotterranea dell’intera vicenda e sembra che l’autore manifesti alla fine un senso di pietà verso la debolezza umana.

helen-mirren-e-donald-sutherland-foto-apUn sentimento di comprensione che attraversa il lavoro di Paolo Virzì,  Elle & John, lei (Helen Mirren, straordinaria) malata di cancro e lui (un tenace Donald Sutherland) professore con l’Alzheimer, decidono di fare un ultimo viaggio insieme  con il vecchio camper.

È la vecchiaia che torna al cinema, un altro dei temi della mostra veneziana. I due anziani liberi ed anarchici viaggiano, litigano, si amano.  Ma non è il classico film americano on the road,  bensì una storia dei due, più intima, in un Virzì dal set meno affollato del solito e più delicato, sino alla sorpresa finale. Forse talora un poco manierato – il regista avrà avuto una involontaria soggezione di fronte ai due “mostri sacri”? – il lavoro non è eccelso, ma rappresenta nella produzione del regista una necessaria pausa dalle commedie italiane gridate, si direbbe un approfondimento del dramma della vita.

E ancora, a proposito di anziani, Stephan Frears ci regala  l’emozione di un bel film in costume, ma tutt’altro che decorativo e superficiale, cioè Victoria  & Abdul. Solo nel 2010 si è scoperto che l’anziana regina “puritana” aveva avuto una relazione platonica con un servo indiano, conforto alla vecchiaia divenuta insopportabile per una sovrana autoritaria, irascibile, ma bisognosa di affetto.

Sulle prime il film regala l’ironia sull’implacabile cerimoniale di corte, ma poi la storia si approfondisce, perchè la corte complica il rapporto tra i due, lo vuole distruggere, per pregiudizi razzistici e ambizioni represse, non ultima quella del figlio e successore Albert (un velato accenno alle vicende recenti dei Windsor?).

La regina la vince su tutto e su tutti: si apre alla vita, alla scoperta di nuovi mondi, alla tenerezza, perchè considera Abdul come un figlio. La morte separerà i due, anche a causa dell’odio della corte che distruggerà i documenti. Il ritratto di un mondo ipocrita e falso, l’esclusione dei sentimenti puri è reso dal regista puntualmente – i dialoghi sono molti incisivi – e risulta di stringente attualità. Brilla Judi Dench, regina perfetta nel ruolo e nella recitazione. Una grandissima.

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