È servito più un decennio, costellato di richieste reiterate da parte delle popolazioni coinvolte, del mondo associativo e di quello scientifico: ma alla fine la Regione Veneto ha annunciato l’avvio di uno studio epidemiologico per valutare gli effetti della contaminazione da Pfas sulla salute della popolazione.
Nelle intenzioni delle istituzioni regionali, questo studio − chiesto per la prima volta nel 2016 – dovrebbe consentire di ricostruire in maniera retrospettiva quanto accaduto: quindi l’esposizione agli inquinanti, le conseguenze, i rischi per le diverse patologie, e definire quindi politiche sanitarie adeguate.
La notizia è stata ovviamente accolta con favore dalle popolazioni interessate e da tutte le realtà che si battono contro la contaminazione da Pfas e ne chiedono la messa al bando; tuttavia, non mancano le criticità.
La prima che è balzata all’occhio è in realtà di natura eminentemente politica, e riguarda la coincidenza dell’annuncio con le imminenti elezioni regionali di fine novembre: «Dopo 12 anni dalla scoperta della contaminazione Pfas, fatalità: prima delle elezioni regionali, la Regione Veneto trova i soldi per fare questo studio epidemiologico – afferma sarcastica l’eurodeputata Cristina Guarda, già consigliera regionale e originaria della zona interessata dalla contaminazione –. Uno studio richiesto dal mondo medico scientifico e dalle popolazioni, perché lo potessero portare in giudizio e appesantire le pene per disastro non solo ambientale ma anche sanitario». Soldi che, denuncia Guarda, da consigliera regionale si è sempre sentita dire che non c’erano; salvo poi vedere finanziate le opere per le Olimpiadi o altre iniziative di interesse della maggioranza. Naturalmente, per quanto l’intervento di Guarda sia stato particolarmente accorato, l’eurodeputata non è stata l’unica a portare questa coincidenza all’attenzione dell’opinione pubblica.
Anche le Mamme No Pfas, in una nota, hanno fatto pervenire le loro osservazioni. Innanzitutto in merito al ritardo con cui si è agito, dato che «se questa indagine fosse stata condotta nei tempi previsti, già da tempo avremmo conoscenze scientifiche importanti sugli effetti dell’esposizione a lungo termine di queste sostanze, con fondamentali ricadute anche sul piano della prevenzione».
Poi il gruppo esprime perplessità perché, secondo quanto affermato nel comunicato emesso dall’assessora regionale Lanzarin, lo studio riguarda la sola ULSS 8 Berica: solo una parte quindi della “zona rossa” interessata, che si estende tra le province di Vicenza, Padova e Verona, e nella quale – ricordano – uno studio ha già evidenziato tra il 1985 e il 2018 un eccesso di 4 mila morti per alcune specifiche tipologie di cancro e malattie cardiovascolari.
E infine viene osservato che «nel comunicato stampa non si menziona il coinvolgimento delle associazioni, dei comitati e dei cittadini che da oltre un decennio si battono per la salute della propria comunità e che hanno contribuito in modo significativo alla conoscenza, anche scientifica, del problema. Auspichiamo che lo studio non sia gestito a “porte chiuse”: non solo è inopportuno, ma contravviene ai principi fondanti della Regione stessa».
Di qui la richiesta di estendere lo studio a tutta l’Area Rossa e zone limitrofe; di garantire la massima trasparenza; di istituire «un organismo di coordinamento dello studio epidemiologico che preveda un monitoraggio indipendente con la partecipazione attiva dei cittadini e delle associazioni coinvolte, come anche indicato nella recente sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’uomo»; e di incontrare i rappresentanti regionali per discutere della questione perché «non possiamo permettere che, dopo tanti anni di attesa, uno studio fondamentale per la salute dei nostri figli e della nostra terra rischi di nascere viziato da limiti geografici e da mancanza di coinvolgimento dei cittadini interessati».