Varcando i cancelli del Mathari hospital

In questo ospedale si trovano persone provenienti da tutto il Kenya con disabilità mentali. Un’ala è destinata a chi è accusato di aver commesso omicidi. Il cantiere dei giovani del Movimento dei Focolari entra in una delle piaghe più dolorose di Nairobi
Mathari hospital

Rebecca sta aspettando Adam. Indossa un abito in raso bianco e rosa: «È il mio vestito di nozze – ci spiega – e domani è fissata la celebrazione del matrimonio». I sogni non possono essere rinchiusi dai cancelli del Mathari hospital di Nairobi, il principale ospedale psichiatrico del Paese. Adam è atteso da anni, ma non arriverà mai, nonostante Rebecca, con i suoi 18 anni, il vestito da sposa e i capelli abbelliti da un nastro, sta attendendolo davanti a quel cancello arrugginito. Questo mentre tutt’attorno le divise a righe verdi delle compagne non sono quelle del giorno della festa, anzi strappi e macchie richiederebbero un cambio.

Sabrina è più vispa. Vorrebbe rivedere la sua mamma e desidererebbe delle caramelle. Purtroppo le saponette che ho in borsa non possono essere trasformate. Anche lei sogna e non si capisce bene se per i farmaci o per la sua malattia. Deve toccarti il braccio con forza per capire che sta vivendo un momento reale. Mentre si salgono i gradini che conducono alle camerate, ti si stringono attorno storie, volti, mani che toccano, qualcuna per la prima volta, un munzungu, un bianco.

Il cantiere dei Giovani per un mondo unito fa tappa dentro questa immensa città dei disabili mentali, per dipingere pareti, tagliare erba, ripulire una cucina con sei pentoloni sempre in azione. Più di mille abitano questa città del dolore, voluta dai britannici e ora un centro di riabilitazione non solo per le malattie psichiche ma anche per le dipendenze da alcol e droga, le piaghe del Kenya odierno.

I pazienti sono divisi in settori per sesso e per pericolosità sociale. Vivono rinchiusi dietro a sbarre e muri che non sanno però imprigionare il desiderio di parlare, di un’amicizia, di un dono che li faccia sentire ancora pensati, ancora uomini. Alcuni sono assenti, altri ti rivolgono la parola, in pochi ti chiedono soldi. Abram, dentro il dormitorio mostra la scritta che qualcuno di loro ha dipinto: «Fede, pace, amore». Ha dell’incredibile pensare quanto questi sentimenti siano universali, siano desiderati e cercati anche in un luogo che a prima vista ne sembra quanto mai lontano. Abram scrive su una mano con i guanti di lattice il suo telefono, poi abbraccia il giovane giordano che gliela porge e che sta riordinando il letto con lenzuola fresche di bucato: «È pulito», precisa. Ed è vero, anche se attorno un olezzo insopportabile riempie le narici e la bocca. Poi lo sorprendi a dividere il cibo ricevuto con un compagno che non mostra alcun interesse per il pacchetto, ma per abitudine o per necessità lo conserva nell’inseparabile sacchetto di plastica che molti portano al braccio, quasi una dispensa portatile.

Rose è la responsabile dei vari settori di cui si compone l’ospedale. Ci accompagna con la decisione che richiede il suo lavoro, ma anche con quella cortesia accogliente che nessun africano ti nega mai, anche nei contesti più degradati. Scortata da una guardia ci conduce nell’ala di massima sicurezza: qui vive chi ha commesso un omicidio e sconta una sentenza o è in attesa di riceverne una, come la giovane donna che da 15 anni ha un processo pendente non ancora giunto a conclusione. Attraverso la piccola finestra orizzontale ritagliata sulla porta di ferro, ti porgono le dita, qualcuno ti offre lo sguardo. I ragazzi, conosciuta la nostra provenienza, intavolano un serrato colloquio sul calcio, indissolubile legame con la parola Italia. Una delle celle comuni si apre su un terrazzo, coltivato ad orto di fronte a Madari, uno dei quattro slum di Nairobi. Un ragazzo scruta quelle lamiere che si improvvisano case, e chissà se immagina di percorrere quelle strade o ricorda di averlo fatto. In questo settore la falegnameria, una sala da biliardo e la lettura sono le attività che lasciano scorrere il tempo: ore di cui nessuno ha consapevolezza, poiché non esistono orologi in nessuna delle stanze. Una penna donata ad uno di loro scatena una ressa di richieste, garbate ma pressanti. Qualsiasi cosa provenga da fuori ha il gusto della vita e accaparrarsene è una necessità.

Il giro dei reparti termina con la consegna di una valigia e di alcune buste con farmaci, saponette, asciugamani: elementi essenziali in quest’ospedale che mantiene i suoi residenti offrendo prestazioni in day hospital all’esterno, perché qui  la sanità è a pagamento e solo i soldi ti garantiscono il diritto alla salute e alle cure. Rose ci saluta nella sartoria e torna al suo lavoro e ai pazienti con la professionalità di sempre e con una vena di tristezza e sgomento, quella che la prende ogni volta che vede un giovane arrivare qui perché abbandonato dalla famiglia o perché vittima di droghe e alcol. Sa che quelle sbarre per qualcuno di loro si riapriranno, ma per tanti resteranno chiuse per sempre.

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