Uscire allo scoperto

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Èdecisa e calorosa la stretta di mano. Gli occhi azzurri brillano di simpatia e curiosità per quest’intervista inattesa. Rodolfo Guajana, 53 anni, è diventato l’imprenditore simbolo della lotta al racket in Sicilia. Alle 4 del 31 luglio il fuoco divorava il suo deposito di ferramenta e, sulla cenere dei capannoni, Rodolfo dichiarava alle tv di non aver voluto cedere al pizzo. Pronunciava una parola rara: perdono. Merce, banconi, scaffali che portavano impressa l’intuizione del nonno sin dal 1875, la tenacia del padre, la sofferta scelta di Rodolfo di abbandonare medicina per diventare imprenditore: tutto in fumo, quello che celebrava la vittoria di Salvatore Lo Piccolo, erede di Provenzano, capo del quartiere San Lorenzo, considerato mandante dell’attentato, dato che la ditta Guajana gravitava nella sua giurisdizione. Era la seconda volta in 14 anni. Dopo il primo incendio, rimessa in piedi l’attività, erano seguite le intimidazioni: colla nei lucchetti, rapine, furti di merce ed infine il nuovo attentato il cui epilogo però è stato la cattura di Lo Piccolo, a novembre. Rodolfo Guajana è considerato un eroe, il procuratore Pietro Grasso lo ha definito un modello laico in terra di mafia. La gente l’applaude… Questo clamore non mi piace. Non sono un eroe. Gli eroi sono dei solitari, sono difficili da imitare, restano isolati. Io, non so come, mi sono trovato ad essere in questo contesto uno strumento di Dio. Avrei potuto chiudermi nel mio presente, nel dolore e non l’ho fatto. La mia esperienza è servita a fare uscire molti dall’ombra. Nella mia categoria neppure si nominava la mafia, non ci si schierava. E invece ho visto crescere le adesioni ad Addio pizzo, l’associazione antiracket, le attestazioni di affetto e solidarietà. Vincere il male si può. L’imprenditore però non può farcela da solo, ci vuole una società che lo accompagni. E noi cristiani abbiamo una responsabilità in più: dobbiamo lottare, uscire allo scoperto e non lasciare solo chi lotta. Proprio ai cristiani lei ha scritto una lettera aperta, pubblicata sul più letto quotidiano regionale. Ho sempre creduto inconciliabile il mio credo religioso con il pagamento di tangenti alla criminalità, come ritengo inconciliabile non pagare il giusto stipendio ai dipendenti o non pagare tutte le tasse allo Stato. Io sono cristiano e non posso permettere che le tangenti continuino a finanziare il traffico di armi e droga, l’usura, la prostituzione. Un cristiano non può fare la comunione pensando di salvarsi l’anima e di salvare il suo lavoro, mentre condanna a morte il prossimo. La lettera l’ho scritta di getto, una sera. Le parole scorrevano sul foglio riga dopo riga come se qualcuno le dettasse al posto mio, non riuscirei a riscriverla. Ho ricevuto echi positivi, ma anche amarezza: degli amici pubblicamente mi elogiavano e poi, girate le spalle, mi consideravano pazzo. Alcune amiche di mia moglie per mesi si sono rifiutate di salire in macchina con noi e di venire a casa nostra, temendo ritorsioni e attentati. Non ha paura? Dopo un prolungato silenzio: No, non ho paura della morte. Ad un certo punto della mia vita avevo pensato di farla finita, ho lanciato una sfida a Dio e lui si è lasciato incontrare da me, un pavido.Ho messo la mia famiglia e l’azienda sotto la sua protezione. Forse è incoscienza, ma intanto i Lo Piccolo sono stati arrestati ed io sono ancora qui. E gli altri imprenditori dopo la presa di posizione di Confindustria Sicilia che ha deciso di espellere chi paga il pizzo, che ne dicono? arrestati ed io sono ancora qui. E gli altri imprenditori dopo la presa di posizione di Confindustria Sicilia che ha deciso di espellere chi paga il pizzo, che ne dicono? Constato che sono un imprenditore diverso dagli altri, io non scendo a compromessi. Accade ancora oggi che un commerciante, prima ancora di aprire un esercizio, si rivolga al boss locale per chiedere protezione. La mia battaglia non è contro qualcuno ma è una battaglia per la legalità. Non voglio alimentare una catena di morte, perché la mafia parte dal pizzo e poi si impadronisce della tua azienda e la usa per i suoi scopi illegali. Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria, ha fatto una scelta coraggiosa: è diventato un mio amico, abbiamo ricevuto insieme Ivan Lo Bello, presidente di Confindustria, ha fatto una scelta coraggiosa: è diventato un mio amico, abbiamo ricevuto insieme il premio Chinnici, intitolato al giudice trucidato da Cosa Nostra. Per me è importante che si parli di mafia; non è certo l’unico modo di fare antimafia, ma parlare si deve, bene o male va fatto perché altrimenti si rischia di finire come padre Puglisi, anche lui solo. Perché restare? Non ho mai pensato di andare altrove, mi sento chiamato qui. Dio mi chiede di fare l’imprenditore a Palermo Voglio restare non per sfidare qualcosa, ma qui ci sono i miei clienti, c’è la tradizione, i miei figli che lavorano con me. Guardo i miei impiegati che in questi mesi si sono trasformati in muratori, falegnami, fabbri: stiamo ricostruendo dentro capannoni abbandonati, concessi dal presidente della regione. Non è facile, ci sono ancora nodi urbanistici, giuridici ed economici da sciogliere, ma abbiamo riaperto il 7 gennaio. Rodolfo ha un sogno? Penso che Dio abbia cominciato un’opera nella mia terra. Non so se la vedrò terminata, ma sono certo che lui la porterà a termine. Passerà del tempo, dovremo imparare a crederci tutti perché c’è una mentalità radicata di illegalità dettata dalla mancanza di Stato e di lavoro, e lì prende piede l’Antistato. C’è troppo clientelismo: ottieni lavoro per il figlio ed in cambio ti viene chiesto qualcosa a cui non puoi sottrarti. C’è però una mentalità nuova che cresce, nelle nuove generazioni, nelle scuole, nelle parrocchie: sono la speranza. C’è nelle associazioni, nei semplici e piccoli, ma c’è!.

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