Uno sguardo planetario sul lavoro

I diritti dei lavoratori vanno considerati globalmente, riconoscendo l’attuale divisione internazionale della produzione. Il caso Rana Plaza (Bangladesh) e un nuovo impegno per la giustizia
Crollo del Rana Plaza

La festa del primo maggio ha un’origine traumatica, come risposta alle repressioni feroci delle prime organizzazioni operaie nella seconda metà del 1800. Una rivendicazione semplice, ma emblematica prese di mira il governo del tempo della propria vita: «8 ore per il lavoro, 8 per dormire e 8 di svago». Colpisce la nostra immaginazione pensare alla capacità degli uomini e donne di quell’epoca di opporre una così decisa resistenza ai ritmi senza tregua della rivoluzione industriale.

La prima articolazione del diritto avviene nell’Europa della Prima Internazionale, ma si afferma negli Stati Uniti, terra di grandi contraddizioni dove maturerà un fiorente movimento di lavoratori che rifiutò ogni tipo di divisione di razza, lingua e condizione professionale. Erano chiamati wobblies, che vuol dire sia “precari” che “itineranti”, a significare una decisa propensione all’agitazione sociale dal basso. Gli International Workers of the World rappresentano tuttora un punto di riferimento ideale destinato a riemergere in tempi diversi come gli ultimi anni segnati da una divisione internazionale del lavoro che ha spostato la fabbrica del mondo verso il Sud e l’estremo Oriente.

Una globalizzazione senza controllo ha permesso in questi anni di far migrare la produzione di Paese in Paese man mano che si alzavano gli standard retributivi, igienici e di sicurezza dei lavoratori. Le ultime notizie arrivano dalla durissima repressione delle rivendicazioni dei lavoratori in Cambogia, addetti alle commesse di noti marchi come H&M, Puma, Adidas, Mark&Spencer, C&A, Next, Tesco, Inditex, GAP, Walmart, Levi’s.

La filiera produttiva delle merci che arrivano sul bancone dei nostri centri commerciali è in effetti segnata da questa estrazione del profitto dalla vita di uomini e di donne come quelle rimaste sotto le macerie della fabbrica Rana Plaza a Dacca (nella foto), in Bangladesh, il 24 aprile del 2013. Ad un anno da quell’evento, che ha provocato 1.138 morti oltre a centinaia di invalidi, le grandi società coinvolte, nonostante gli impegni formalmente assunti, continuano a non risarcire i familiari delle vittime.

Lo denuncia puntualmente la campagna internazionale “Abiti puliti”. La questione centrale resta la mancanza di un’autorità sovranazionale in grado di esigere il risarcimento del danno. L’organizzazione internazionale del lavoro “Ilo” ha potuto fare solo da garante di un accordo tra marchi, sindacati e governo locale per costituire il “Donor Trust Fund” su cui far affluire 40 milioni di dollari di donazioni. Il contatore è fermo alla cifra di 15 milioni. Benetton, ad esempio, un emblema del capitalismo italico con interessi estesi anche oltre l’abbigliamento, deve ancora versare i 5 milioni di dollari pattuiti. Agli inizi di aprile è anche arrivata in Italia Shila Begum, sopravvissuta allo schianto del pericolante Rana Plaza, per partecipare a diversi incontri pubblici e incontrare rappresentanti delle Camere e della Commissione diritti umani.

Ma ciò che più fa riflettere è il comportamento di un colosso della grande distribuzione come la statunitense ValMart che non ha neanche voluto sottoscrivere l’accordo, anch’esso evidentemente volontario, con cui 150 marchi internazionali di moda si sono obbligate legalmente a migliorare condizioni di lavoro in Bangladesh. ValMart, che fattura 460 miliardi di dollari e cioè più del Pil di tante nazioni, ha deciso sovranamente, assieme a Gap e Macy, altri marchi Usa, di stipulare un differente accordo che prevede meno vincoli legali. Una proposta che nessuno si è sentito di rifiutare.

La questione, oltre l’attivismo dei pochi che continuano a scrivere petizioni telematiche ad aziende e governi, passa attraverso una nuova consapevolezza di quel legame sociale che i wobblies americani, in gran parte immigrati di origine irlandese e italiana, portavano impresso nel loro motto («un’ingiustizia fatta ad uno solo è un’ingiustizia fatta a tutti») e che il movimento del Catholic Worker di Dorothy Day e Peter Maurin ha saputo declinare in maniera non violenta.

Il futuro degli equilibri economici e sociali mondiali dipenderà dalla capacità di liberarsi dal giogo di una delocalizzazione selvaggia che desertifica antichi insediamenti produttivi e genera nuove schiavitù non solo in località remote, ma spesso sotto casa. Il cammino dall’indignazione all’azione concreta è sempre il più lungo da compiere e richiede, soprattutto, un atto di fiducia nella dignità e sacralità di ogni essere umano. 

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