Uno chef controcorrente

Filippo Cogliandro, conosciuto e apprezzato in tutta Italia, non solo per le sue ricette che fondono innovazione e tradizione, è il protagonista del romanzo “Io chef, per la mia terra”. La sua storia sul numero di giugno di Città Nuova.

Di padre in figlio. Quando incontri e conosci la storia di Filippo Cogliandro, non puoi non notare che l’onestà, la cura delle cose, l’intraprendenza non possono non avere a che fare con lo stile della famiglia, dove hai vissuto, indipendentemente dalla terra dove abiti. Non c’entrano i geni del Dna, è una questione di humus, di terra buona, che, a suo tempo, porterà frutti. L’importante è aver ben preparato il terreno e averlo seminato. Nel solco del padre, Filippo ha percorso la propria strada che prende origine dagli insegnamenti dei genitori, ma se ne discosta, con il suo originale cammino, secondo le sue inclinazioni, in accordo con l’unicità e l’irrepetibilità di ognuno. Visto da vicino Filippo Cogliandro è il ritratto dell’empatia, volto rotondo, paffuto, affabile, coinvolgente. Da ogni poro trasuda ottimismo, passione, attenzione. Non solo in quello che fa, ma per ogni persona accanto di cui cura il rapporto. Una persona così sarebbe comunque riuscita al di là del mestiere che avrebbe scelto.

La sua non è solo una storia di legalità o di contrasto alla ’ndrangheta, ma la storia di un uomo riuscito, con i suoi limiti e difetti, ma con un cuore e una testa, che coniuga l’intraprendenza, l’aspetto cognitivo con l’intelligenza emotiva, che sa leggere il suo tempo, che è dentro la realtà con tutte le sue contraddizioni ma sa gettare il cuore oltre l’ostacolo, che sa guardare oltre la siepe e scoprire l’infinito fatto di piccole gocce di speranza che non si disperdono nell’aria, ma si depositano su un terreno buono generante altra vita.

Classe 1969. Nasce a Capo D’Armi, in provincia di Reggio Calabria, una bella cittadina affacciata sullo Jonio. Terzo di 5 figli con il padre Demetrio che l’azienda di famiglia ce l’ha nel sangue. Comincia con le due ruote, ripara biciclette, fino ad aprire una stazione di rifornimento appena le quattroruote cominciano a prendere strada. Il suo sogno era quello di passare l’area di servizio di Lazzaro, nei pressi di Reggio Calabria, ai figli. Eredità, in parte, disattesa. Esempio, seguito in tutto.

Un padre “con l’intelligenza nelle mani”, che sapeva far tutto, ingegnoso e anche se non colto – aveva solo completato le elementari – era capace a far di conto in modo veloce e preciso. Più che altro un modello di dedizione, lavoro, sobrietà, onestà. «Un vero maestro di vita – spiega Filippo – e, quando con i miei fratelli analizzo la mia vita con papà, scopriamo tantissimi insegnamenti. Oggi tutti noi ci sforziamo di trasmettere ai figli quello che abbiamo appreso da lui». Semi che di certo non si dissolvono con la sua scomparsa nel 2007 a 81 anni.

Chi lavora, produce e raccoglie frutti, dà nell’occhio. Osservatori attenti che dalla penombra appaiono e iniziano a minacciare, con telefonate anonime, insulti, mentre il papà Demetrio ripete ai figli: «Mai abbassare la testa davanti a un sopruso! Nel momento in cui vi dimostrate deboli, loro se ne approfitteranno: vi staranno sempre sul collo a chiedervi il pizzo, arriveranno perfino a prendersi la vostra attività». Dopo le rapine a mano armata, spari contro il portone di casa, incendio delle autovetture e tentativo di dar fuoco al distributore di benzina, una sera si arriva al tentato omicidio. Da una siepe gli sparano due colpi con un fucile da caccia. Non muore, ma è gambizzato.

Sono infinite le strade che portano Filippo a trovare la sua. Transitano per il liceo in seminario, per un secondo diploma di maturità turistico alberghiero, l’apertura di una cooperativa di servizi turistici, l’abilitazione per intraprendere un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, l’apertura di un ristorante con altri due soci. Filippo provvedeva a fare la spesa, il suo socio, Gaetano, era il cuoco. Finché un giorno, un benedetto giorno, Gaetano aveva altri impegni e non poteva onorare il suo lavoro. «Quella sera – racconta Filippo – cucinai per due, servii le pietanze, lavai i piatti, pulii la sala e chiusi il ristorante». I due ospiti gli dissero di ringraziare il cuoco non sapendo fosse Filippo. Era nato uno chef. La proprietà de l’Accademia, questo il nome del locale, passa a lui e dai 16 coperti inziali si arriverà a 40.

Finché la storia si ripete. L’attività cresce, si sposta in locali più ampi, la sua nomea si spande in città e arriva a chi pretende di guadagnare sulle spalle degli altri, dei parassiti del corpo sociale, pochi criminali che tengono in scacco la gente perbene che lavora con sacrificio, creatività e iniziativa. La richiesta del pizzo arriva come assicurazione per la sua sicurezza. Veloce come Speedy Gonzales, Filippo non perde tempo e la mattina seguente denuncia i suoi aguzzini. La Guardia di Finanza è sorpresa perché non era mai accaduto che una denuncia arrivasse il giorno dopo la richiesta del pizzo, quando ancora non era accaduto nessun reato. La sua fermezza nasce dalla convinzione che «il silenzio uccide».

Il resto non è una marcia trionfale, ma è una strada ricca di saliscendi, di fallimenti e di riprese, di trovarsi sull’orlo dell’abisso fino a vittorie insperate, a riconoscimenti pubblici come aver vinto il Premio nazionale Paolo Borsellino e all’essere nominato ambasciatore del gusto in Calabria per promuovere una terra di eccellenze agroalimentari, spesso dipinta solo come terra di criminalità, senza conoscere gente laboriosa che ha spirito imprenditoriale e sa dare un’anima al proprio lavoro nonostante il difficile contesto sociale.

A colmare questo vuoto ci ha pensato Oreste Paliotti, che incontra Filippo Cogliandro durante una riunione tra amici che hanno a cuore il bene della loro città. «In quell’occasione – spiega Oreste Paliotti – uno degli invitati a raccontare la sua storia era lo chef Filippo Cogliandro. Non sapevo nulla di lui, era la prima volta che lo vedevo, ma ciò che raccontava e come lo raccontava, con passione, con ordine cronologico e con proprietà di linguaggio, mi ha fatto pensare: basterebbe trascrivere quello che ha detto e l’articolo sarebbe bell’e fatto. E poi un altro pensiero: perché una semplice intervista? Qui c’è una storia intera che meriterebbe di far conoscere con un libro». Detto fatto. Tutti i dettagli, le avventure della sua storia, di un uomo che si è impegnato per gli altri, per i poveri della città, per gli immigrati, che ha inventato le cene solidali, sono nel prossimo romanzo della collana Passaparola per i tipi di Città Nuova dal titolo Io, chef per la mia terra, scritto con maestria da Oreste Paliotti e Filippo Cogliandro. Si legge tutto d’un fiato. Nell’appendice gustose ricette anti-spreco: idee da porgere a coloro i quali, aprendo il loro frigorifero, si ritrovano tanti ingredienti inutilizzati. Consigli da chef per noi già “stellato”.

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