Undici statuette per l’Anello

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Com’era facilmente prevedibile, Il ritorno del re, terzo episodio del Signore degli anelli, ha fatto l’en plein: 11 Oscar su 11 nomination. Eguagliando così il record di Ben-Hur nel 1959 e di Titanic nel 1997. Mai pronostico è apparso più scontato di quello formulato per la 76ª edizione. Anche se per il 2004 la sfida si concentrava nel superconfronto fra Il ritorno del re di Peter Jackson e Master & Commander di Peter Weir. Pure gli incassi conseguiti al botteghino e i cori di entusiasmo che hanno accompagnato la marcia trionfale del primo lasciavano ampiamente intuire che fra i due non ci sarebbe stata partita. E così è stato. Mentre Master & Commander si è dovuto accontentare di due statuette (miglior fotografia e migliori effetti sonori) delle dieci alle quali era candidato, Il ritorno del re ha fatto tabula rasa di tutto il resto: miglior film, miglior regia e poi via via sceneggiatura non originale, scenografia, costumi, effetti visivi, trucco, sonoro, colonna sonora originale, montaggio, canzone originale. Bingo, si è sentito gridare dal fondo della sala quando anche l’undicesima candidatura si è trasformata in una lucente statuetta. Nel pieno rispetto di un facile copione anche il premio destinato agli attori: Sean Penn per Mystic River di Clint Eastwood; Charlize Theron per Monster di Patty Jenkins. E lo stesso criterio è valso per gli attori non protagonisti: Tom Robbins per Mystic River e Renée Zellweger per Ritorno a Cold Mountain di Anthony Minghella. Le novità non sarebbero mancate se nelle due categorie più prestigiose (miglior film e miglior regia) fossero riusciti a spuntarla gli outsider, gli indipendenti concepiti fuori dagli schemi hollywoodiani come Mystic River e Lost in Translation di Sofia Coppola. Estranei al sistema anche nei contenuti proposti: il primo, capace di fondere i meccanismi del thriller con l’elaborazione del dolore e il dramma di coscienza; il secondo, in grado di fornire risvolti esistenziali e problematici agli inariditi parametri della commedia. Sul nome di Sofia Coppola si sono concentrate le maggiori attese dell’edizione 2004. Ma più per le curiosità che nascono dalla statistica che per gli effettivi meriti della giovane autrice. Nella storia del cinema, infatti, dopo Lina Wertmüller per Pasqualino Settebellezze e Jane Campion per Lezioni di piano, Sofia Coppola è la terza donna a conquistare una nomination per la regia. In più, aggiudicandosi con il premio per la miglior sceneggiatura originale una delle tre statuette alla quale era candidata (miglior film e miglior regia le altre due), Sofia Coppola ha regalato alla sua famiglia una tripletta generazionale, aggiungendo il suo nome a quello del padre Francis Ford e del nonno, il musicista Carmine. Primato fino a ieri ristretto agli Huston: al nonno Walter, al figlio John e alla nipote Anjelica. Anche le statistiche, comunque, portano acqua al mulino dell’Academy Award, suscitano attesa e fanno salire il termometro dell’interesse. L’importante è tener desta l’attenzione, creare l’evento, coinvolgere concorrenti e opinione pubblica nella stessa kermesse. D’altra parte l’Oscar è il trionfo del sistema corporativo e delle lobby, dove pesce grosso mangia pesce piccolo e dove l’alone democratico (i votanti sono più di 5 mila) si traduce in un voto di scambio a chi ti ha dato lavoro o te l’ha promesso. Non a caso Hitchcock diceva che se per chi lo riceve l’Oscar serve a raddoppiare l’onorario, per chi lo assegna funziona come iscrizione nelle liste dell’ufficio di collocamento. Nessuna sorpresa neppure dal premio per il miglior film straniero, toccato a Le invasioni barbariche del canadese canadese Denys Arcand. Che, per lo meno nei confronti del sistema hollywoodiano, ha un gran pregio: stimolare, anche in modo provocatorio, la riflessione sul mistero della vita e della morte, sul conflitto fra una concezione etica e una edonistica dell’esistenza, sull’imbarbarimento delle coscienze. Perché il cinema non sia soltanto un festival di effetti speciali.

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