Una risposta collettiva a una notte collettiva?

Se la prova non è soltanto del singolo cristiano, ma di tutta la Chiesa, o almeno di porzioni di essa, o addirittura dell'intera società, almeno di quella occidentale, ci si può domandare se anche il modo di affrontarla e di viverla non dovrà essere collettivo.
la mia notte non ha oscurità

Gli autori spirituali insegnano che nel cammino spirituale i momenti di grazia più alti e più fecondi sono quelli della crisi, della prova, della notte.

La spiritualità li ha analizzati in maniera approfondita nel cammino della singola anima. Tuttavia sappiamo che il cammino personale si svolge sempre all’interno del cammino comunitario dell’intero popolo di Dio.

Le immagini bibliche del dinamismo spirituale sono riferite in primo luogo alla Chiesa. È la Chiesa il tempio di Dio che si edifica con l’unione delle singole persone, pietre dell’unico edificio; la piantagione che Dio fa germogliare; il corpo di Cristo, che cresce fino alla statura adulta; la Sposa che Cristo unisce a sé in mistiche nozze.

Ogni singolo cristiano percorre un itinerario di crescita in quanto parte viva della Chiesa, all’interno di un’esperienza comunitaria, ecclesiale. Si può quindi pensare che l’intero corpo ecclesiale, lungo il suo cammino, possa vivere momenti di crisi, di prova, di notte, così come testimoniate, ad esempio, nell’itinerario dell’esodo dell’antico popolo di Dio.

Gustave Thibon nel 1938 scriveva: “Ho sempre pensato… che l’evoluzione umana del cristianesimo comporti, oltre alle notti descritte dai mistici e destinate a purificare l’amor divino negli individui, anche delle autentiche notti storiche, ossia delle prove estese sulla scala dell’intera umanità, nel corso delle quali si elaborano le nuove ere della spiritualità”.

Paragonava quindi l’inizio dell’era cristiana all’abbondanza sensibile dei principianti, il medioevo alla notte dei sensi, l’età moderna alla notte dello spirito. Si può non concordare sulla periodizzazione. Rimane vera l’intuizione di un cammino spirituale di tutta la Chiesa.

Nel 1948 Karl Rahner allarga la visione all’intera società, domandandosi: “Perché queste stesse notti non dovrebbero esistere nella storia di popoli e dei continenti, tramutandosi in qualche modo in esperienza comune?”. Non dovrebbe accadere quello che oggi sta accadendo? A quanti rimangono scettici davanti a una simile prospettiva domanda: ci si dimentica che lo stesso Signore “ha esclamato: Perché mi hai abbandonato?”.

Come non ricordare, in proposito, il famoso discorso di Giovanni Paolo II a Segovia, ispirato a Giovanni della Croce, il “dottore della notte”: “La notte oscura, la prova che fa toccare il mistero del male ed esige l’apertura della fede, acquista a volte dimensione di epoca e proporzioni collettive” (3.11.1982). 

Se la prova non è soltanto del singolo cristiano, ma di tutta la Chiesa, o almeno di porzioni di essa, o addirittura dell’intera società, almeno di quella occidentale, ci si può domandare se anche il modo di affrontarla e di viverla non dovrà essere collettivo.

Emerge naturale l’icona pasquale dei due discepoli diretti a Emmaus. La loro situazione di perdita di fede di incertezza, di insicurezza, non può essere una parabola della vita consacrata che sembra aver perduto il senso del proprio esistere nella Chiesa? “Credevamo, ma…”. Cos’è che trasforma Cleopa e il suo compagno da persone tristi, scoraggiate, deluse, in persone ardenti e luminose? Gesù, il Risorto, che si rende presente in mezzo a loro. La sua presenza si fa luce interpretativa: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui”.

Anche alle donne gli angeli avevano detto: “Ricordatevi come vi parlò quando era ancora in Galilea”. Anche agli apostoli apre la mente all’intelligenza delle Scritture ricordando che “il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno”. Ad ogni apparizione Gesù fa memoria delle sue parole esigenti: “Il Figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere rifiutato, ucciso e risorgere”. Esigenti per lui come per noi: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno, e mi segua”.

Se il Risorto apparisse nella Chiesa di oggi, lungo il suo difficile cammino, ripeterebbe forse le stesse cose e inviterebbe a fare memoria delle sue parole, le direbbe di nuovo, ed esse illuminerebbero nuovamente la mente, facendo comprendere che stiamo vivendo in comunione con il suo mistero di morte e di risurrezione e nuovamente scalderebbero il cuore, infondendo ancora slancio e forze per procedere nel cammino.

Non è soltanto un sogno, non è un’utopia. È la verità. Lui ha promesso che se siamo uniti nel suo nome si accosterà a noi e camminerà con noi. Lui stesso condividerà la nostra notte e lui stesso porterà la nostra croce.

Luminosa, al riguardo, una pagina di Igino Giordani.

Gesù aveva detto, a chi vuole essere suo discepolo, di prendere ogni giorno la sua croce e di seguirlo; e Luca, che ha riportato queste parole, ce le ha mostrate in maniera plastica nell’icona di Simone di Cirene che, letteralmente, prende la croce e segue Gesù.

Giordani inverte l’immagine dell’icona e vede Gesù che si rende presente nella nostra vita per farsi lui stesso Cireneo nei nostri confronti: la croce, scrive, “pesa di meno se Gesù ci fa da Cireneo”. E pesa ancora di meno, continua, se la portiamo insieme: “Una croce portata da una creatura alla fine schiaccia; portata insieme da più creature con in mezzo Gesù, ovvero prendendo come Cireneo Gesù, si fa leggera: giogo soave. La scalata, fatta in cordata da molti, concordi, diviene una festa, mentre procura un’ascesa” (La divina avventura).

È come se Gesù ci dicesse: “Non temete perché, se siete uniti, Io sono con voi, e porto la vostra croce – qualsiasi essa sia -, come Cireneo”.

Basterà tenere lo sguardo fisso su di lui, riconoscerlo accanto a noi in ogni prova, rimanere uniti nell’amore, in modo che sia lui stesso, in mezzo a noi, la nostra Via.

 

 

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