Una notte sulla Via Emilia

Stasera sono un’ospite d’eccezione in questo camper un po’ vecchiotto, con Roberto, Mary e Nilde alla guida. Il profumo intenso di brioche calde e di cappuccino stimola il buon umore e la cordialità. Imbocchiamo la prima strada a sinistra presso la località Ponte Enza, piccola frazione dopo Sant’Ilario D’Enza, tra Parma e Reggio Emilia, e ci lasciamo la via Emilia alle spalle. La strada è illuminata solo dai fuochi accesi dalle ragazze che si sporgono sul ciglio, non appena vedono i fari lontani. Altri colori emergono dal buio quando quei fasci di luce le intercettano: minuscoli pezzi di stoffa viola, arancione, fluorescente, maculata, dorata, argentata messi proprio lì, dove vorresti non guardare. Il resto, corpi nudi. E poi monili e cinture e pendagli e cappelli e scarpe, tutto appariscente e chiassoso. Proseguiamo ancora per circa un chilometro, poi il camper si ferma. Scendiamo. Sono le 21.45 di venerdì 14 marzo. L’inverno della pianura padana sta lasciando il posto a temperature più miti, anche se, di notte, l’aria rimane ancora umida e pungente. Un odore acre di bruciato mi prende la gola, ma il sorriso e le grida delle ragazze che ci vengono incontro me lo fanno presto dimenticare. Sono contente di vederci, sembrano aspettarci da tempo. Saluti, abbracci, scambi di affettuosità. Ora posso vederle da vicino: sono nigeriane, quasi tutte arrivano da Benin City. Alte, belle, alcune si direbbero giovanissime. Una ha un occhio cerchiato di nero, un’altra un taglio che le attra- versa la parte sinistra del viso, un’altra reca tracce di ferite nel collo e sul petto. Malgrado l’abbigliamento, sono gli occhi che mi catturano, quasi a volermi portare dentro la loro storia. Ciao Jenny, ciao Rita, ciao Joy, ciao Regina. E le parole rimangono lì, sospese ai discorsi del più e del meno, come va, come stai, che freddo fa stasera. Le parole, quelle vere, forse arriveranno. Eppure mi sembra che nell’immediata familiarità ci sia già un’umanità piena e reale. Ci scaldiamo con la brioche e il cappuccino. Dopo un po’, Cinzia prende il tamburo dal camper e comincia a percuoterlo con le sue mani forti e sottili, ricordando un canto africano. Alcune ragazze si dispongono in cerchio e la seguono nel ritmo che coinvolge i corpi. Sono ritornelli, litanie d’amore, invocazioni di fiducia al Lord of my life. Una ragazza scoppia a piangere e alcune, sorridendo, la guardano e annuiscono. È esplosa la preghiera come canzone del cuore che non si può più trattenere: qui, in questo posto di sfruttamento, di umanità disfatta, dove l’aria è greve per quel poco che sai e quel tanto che immagini del racket della prostituzione, un canto leggero sale fino a perdersi chissà dove. Nilde apre la Bibbia, la porge ad Isoke che legge in inglese mentre le altre ascoltano in silenzio. Intanto le auto sfrecciano, rallentano, qualcuna si ferma: un paio di ragazze deve andare. È il brano dell’incontro tra Gesù e la samaritana: una donna, la sua storia, l’acqua di Gesù. Le ragazze pregano con una immediatezza e una profondità che, questa volta, commuovono me. Grazie per il dono della mia vita, o Dio – dice Jenny -, grazie perché esisti e mi proteggi. Grazie perché non mi giudichi ma mi accetti così come sono, come la donna al pozzo . Ringraziano tutte. È sempre la loro prima parola. Poi la supplica: Dio, liberami, non lasciarmi qui! Dammi i soldi per finire di pagare il mio debito, grida Regina. Padre, ho tanta paura: di morire, di essere picchiata, di prendere l’Aids, di non tornare più a casa! Aiutami! , continua Linda. Le risponde Mansy: Devi credere in Gesù e avere fede in lui con tutto il tuo cuore. Succedono grandi cose nel mondo e io le vedo. Perché la donna che incontra Gesù ha cinque mariti? – chiede Cinzia -. Sono gli uomini, in Nigeria, che hanno tante mogli…. Ma non è giusto – le risponde Joy -: io sento nel mio cuore di donna che ho tanto amore da dare ad un solo uomo e vorrei che uno solo mi amasse. Io piango tutte le volte che sono da sola, piango questa vita di schiava. Perché non ho la libertà di sognare una famiglia, un marito, dei bambini, un lavoro, confida Cinzia. Padre, per l’acqua e il sangue di Gesù Cristo, tuo Figlio, lava tutti i miei peccati e liberami!, invoca Rita. La preghiera è anche per chi soffre, per gli ammalati, i carcerati, i bambini sfruttati, le persone disperate e sole. Nilde apre percorsi di affidamento interiore e suggerisce piccoli passi di consapevolezza e di liberazione: si parla dei documenti, della madame, dei protettori, del debito, della disponibilità ad accogliere quelle che lo desiderano in posti sicuri e poi via, verso una città lontana. Ci sono persone disposte ad aiutarvi, senza volere niente in cambio, assicura Nilde. Le ragazze ascoltano e fanno domande. Solo quando arriva un’altra, Ester, si chiudono a riccio, intimorite da quella nuova presenza. Passano altre macchine, qualcuno lancia oggetti o offese che non trovano risposta, qualcuno ha la musica a tutto volume. Poi, Rita, Jenny, Isoke ci chiedono di salutarle con un segno di croce sulla fronte. Mansy mi si avvicina: Prega per me, e abbassa la fronte per essere benedetta. Mi sento tanto coinvolta quanto indegna nel farlo e allora anch’io abbasso la fronte per ricevere la sua croce su di me. Quasi tutte hanno ancora gli occhi umidi e se ne vanno via con un grande sorriso: riprendono il loro posto sulla strada. Tranne Cinzia, che sussurra a Nilde: La mia mamma mi chiama Gift. Io voglio vivere da Gift, chiedilo a Gesù per me. Gift non è Cinzia. Si abbracciano. Passano due gazzelle della polizia e le ragazze scappano all’impazzata nel bosco o lungo la riva del fiume. Noi rimaniamo a guardarle impotenti. Qui ne sono morte due qualche anno fa – mi racconta Nilde -. Rosemary è stata trovata uccisa sulla strada, Pamela è annegata nel torrente mentre scappava da una retata della polizia, una ragazza albanese è stata investita e trascinata sulla via Emilia: nessuno ha richiesto e riconosciuto il corpo. La scorsa settimana una di loro è stata aggredita, picchiata e derubata da cinque uomini arrivati con un pulmino. Spesso ci capita di portare le ragazze ferite o che stanno male al pronto soccorso. Anche quelle che aspettano un bambino hanno bisogno di fare analisi e controlli. Appena ce ne rendiamo conto, interveniamo. Possono rimanere sulla strada fino a nove mesi…. Dopo una ventina di minuti, le auto tornano con più insistenza e rallentano, si abbassano finestrini, si chiede, si contratta. Vedo Jenny salire in una, Isoke non c’è più, così come Naomi e Linda. Mansy da lontano ci fa un saluto: ormai è ora di andare. Nilde sembra leggermi nel pensiero: È terribile non poter fare subito qualcosa per loro. Ma bisogna conquistare la loro fiducia, con pazienza e amorevolezza. Noi cerchiamo di far crescere nelle ragazze la consapevolezza che, se vogliono, possono cambiare e iniziare una nuova vita. Il desiderio deve diventare più forte della paura e dei legami che le bloccano. Noi le accompagneremo, non saranno mai sole in questo cammino. Sulla strada del ritorno sono i volontari che mi raccontano l’altra parte della storia. Le ragazze che ho incontrato stasera devono pagare un debito di 45 mila euro ai loro protettori. Sono state portate in Europa con la promessa di un lavoro come commessa, infermiera, parrucchiera. Firmano un contratto tra gli sfruttatori e la famiglia di origine, sancito da riti antichissimi con invocazioni di spiriti maligni e sacrifici. Le ragazze sono molto spaventate per il male che questi riti potrebbero scatenare su di loro e sui familiari. A questo si aggiunge la paura di ritorsioni e violenze nel caso in cui non venga pagato tutto il debito. Le nigeriane arrivano da Spagna, Francia, Olanda, Inghilterra, qualcuna direttamente dal Marocco con imbarcazioni di fortuna. Controllate a vista giorno e notte dalla madame e dai protettori, imparano presto, per sopravvivere, a muoversi all’interno di relazioni di violenza e di annichilimento. Ci sono anche i papagiro, uomini di una certa età e persone sole che diventano amici delle ragazze (un vestitino nuovo, un bicchiere di tè, un panino offerti con una certa frequenza, in cambio di prestazioni gratuite). Alcune impiegano mesi, anche anni, a comprendere che la madame è una sfruttatrice e fa parte anche lei del giro. La strada diventa così l’incubo che inghiotte la vita di tante innocenti, punto immobile di non ritorno. Diverse però hanno avuto il coraggio di denunciare, di scappare, di farsi aiutare e ne sono uscite. CHI È NILDE Nilde Marchesini abita a Reggio Emilia, in una zona dove vivono molti immigrati. Nativa di Calerno, riceve la consacrazione dalle mani del vescovo, mons. Gilberto Baroni, nel 1984. Sceglie di vivere il suo amore accanto ai più poveri. Insegna in una scuola d’infanzia comunale della provincia di Reggio Emilia e da dodici anni è vicepresidente di Rabbonì, un’associazione della Chiesa reggiana- guastallese, creata per avvicinare ragazze e donne che si trovano in condizioni di sfruttamento. Attualmente ne fanno parte una ventina di persone tra volontari e famiglie impegnate nell’accoglienza.

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