Una generazione senza pensione?

Tanti lavoratori precari avranno, nel prossimo futuro, ridottissime pensioni. Dati conosciuti da tempo, potenzialmente dirompenti.  
Pensionato

Una grande banca come Unicredit ha annunciato un piano per la propria riorganizzazione interna nel periodo 2011-2013 che prevede l’uscita di 4.700 lavoratori. La notizia non ha creato allarme e anche i sindacati hanno espresso la loro soddisfazione per l’accordo raggiunto. Come mai? La ragione consiste nel fatto che, per la gran parte (4.100), si tratta di persone che matureranno i requisiti della pensione durante il periodo previsto, ricevendo anche un incentivo di carattere economico. La banca prevede, inoltre, di fare oltre duemila nuove assunzioni stabilizzando, ad esempio, gli apprendisti o facendo entrare alcuni figli dei dipendenti che si sono messi in pensione volontariamente.

 

Una situazione tranquilla, comune a tante vicende del recentissimo passato dove la previdenza pubblica si è perfino accollata anche gli oneri, interi anni di contribuzione, di numerosi prepensionamenti che hanno alleggerito il costo del lavoro di tante aziende. Una condizione che contrasta con la realtà attuale di molti settori dove chi è stato assunto con un contratto stabile si trova incoraggiato alle dimissioni ricevendo, in cambio, la possibilità di un contratto di lavoro a progetto. Certe volte ciò accade per rispondere ad un’emergenza. Altre volte è il modo più semplice per approfittare della crisi e della penuria di lavoro per abbattere i costi, a partire da quello dei dipendenti.

 

Ma cosa comporta una scelta di questo genere nel medio e lungo periodo? Prendiamo ad esempio il bancario che riceverà anche l’incentivo aziendale dell’Unicredit. La sua pensione verrà calcolata con il metodo retributivo e cioè prendendo a riferimento le ultime retribuzioni percepite. In questo modo avrà una pensione che potrà corrispondere anche all’80 per cento dell’ultimo stipendio (è quello che si chiama “tasso di sostituzione”).

 

Le regole saranno radicalmente diverse per tutti coloro che hanno iniziato a lavorare dal primo gennaio 1996. L’età richiesta per andare in pensione sarà sempre più elevata mentre diminuirà l’importo ricevuto dalle casse dello Stato. Si stima che nel 2035 un lavoratore con un contratto regolare a tempo indeterminato e 35 anni di contributi riceverà una pensione pari al 58 per cento del’ultima retribuzione, contro il 70 per cento assicurate dalle regole vigenti prima delle riforme previdenziali avviate nel 1992. Un andamento che riguarda anche i collaboratori. Solo che per quest’ultimi le imprese versano contributi minori di quelli previsti per i dipendenti.

 

In un recente dibattito organizzato dall’Ania (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) e consumatori, il presidente dell’Inps, Antonio Mastrapasqua, ha fatto un accenno alle simulazioni delle pensioni dei lavoratori atipici che sarebbe bene non far circolare per non indurre alla rivolta sociale. Si tratta, tuttavia, di valori ben conosciuti e forse rimossi dalla percezione comune. Ad esempio la Fondazione del Collegio Carlo Alberto, creata dalla Compagnia di San Paolo e dall’Università di Torino, ha un centro studi (Cerp) dedicato alla ricerca sulle pensioni e le politiche del Welfare che nel 2008 ha prodotto un serio approfondimento sulle pensioni dei lavoratori che iscritti alla gestione separata dell’Inps.

 

Secondo le simulazioni verosimili del Cerp ( “Center for research on pensions and welfare policies” ) una persona che inizia a lavorare a 20 anni e colleziona, caso raro, ininterrottamente, per esempio, una serie di contratti di collaborazione, riceverà a 65 anni una pensione annuale, secondo i valori medi, pari a 8 mila e 400 euro. Per le autrici della ricerca, l’aumento dell’importo di una pensione così bassa potrebbe avvenire con il ricorso alla previdenza complementare offerta dai prodotti assicurativi. Ma, come tutti intuiscono, per pagare i versamenti di un fondo del genere occorrerebbe una retribuzione più alta di quella mediamente percepita da un collaboratore. In genere si tratta, infatti, di redditi bassi che non permettono di fare risparmi pensando alla vecchiaia.

 

Anche se le realistiche considerazioni del presidente dell’Inps hanno avuto poco spazio sui media ufficiali, la notizia ha generato un significativo dibattito nel mondo di quel web popolato proprio da quelle fasce giovanili interessate alle previsioni di lungo termine sul proprio destino pensionistico. Lo stesso Cerp ha potuto accertare che esiste la necessità di una vera e propria «alfabetizzazione degli italiani sul versante della conoscenza previdenziale e pensionistica». Non dimenticando, infine, il dato ancor più inquietante degli inoccupati, coloro cioè che hanno rinunciato a lavorare e studiare. Secondo i dati Istat 2009: uno su cinque dei “giovani” compresi tra i 18 e i 34 anni.

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