Una finestra per rivedere le stelle

Vendicare il figlio ucciso dalla mafia era l'assillo di quella elegante signora in nero.

Al posto di un collega ammalato, l’università di Pécs ha mandato me a Palermo per illustrare il sistema scolastico dell’Ungheria. Cordiale è l’accoglienza: albergo nel centro, conferenza nella dorata “sala verde” di Palazzo Comitini, interviste, giro della città. Ma una serata resta indimenticabile. Invitato da una nota famiglia aristocratica con i colleghi professori, vengo accolto in una antica lussuosa villa con vista sul mare.

Anch’io vengo chiamato a ricevere una targa ricordo. Mentre torno al mio tavolo, vedo venirmi incontro una signora che riconosco: è la madre di un mio compagno del liceo. Sorpresa di vedermi lì, mi invita al suo tavolo dove siedono il marito e un’elegante signora in nero che si presenta come Maria Carmela.

Iniziano così le interrogazioni sugli studi compiuti, sul perché mi trovo in Ungheria. Mentre racconto che nella mia vita c’è stata come un’irruzione di mistero che, mettendo tutto in gioco, ha determinato un deciso cambio di programmi, mi accorgo che l’unica interessata a saperne di più è proprio la signora in nero.

Poco dopo mi ritrovo con lei nella terrazza sul mare. Alla sua domanda sui motivi per cui ho lasciato la Sicilia, le parlo di aver avvertito la presenza di Dio-amore in ogni avvenimento che mi riguardava e la conseguente passione di vivere per contribuire a costruire un mondo più umano.

Cala un pesante silenzio, rotto dalla voce alterata di Maria Carmela: «Nella sua vita, mi dice, c’è stata un’irruzione di mistero. E lei lo chiama Dio-amore. Per me invece c’è stata un’irruzione di male. La mafia mi ha ucciso un figlio, l’unico adorato figlio. Un ragazzo sano, buono. Aveva fatto una discreta carriera in banca.

«Ho cercato di far luce sulla sua morte con avvocati di valore, investigatori privati. Ma quando si arrivava a sfiorare istituzioni e nomi potenti, con una scusa o l’altra, chi doveva aiutarmi si ritirava. Ero disperata. Pur di essere vicina a mio figlio, mi sono rivolta ad un medium che sembrava avesse il potere di evocare i morti. Così ho avuto qualche segnale su chi poteva essere il mandante dell’assassinio: un collega di mio figlio, longa manus della mafia per traffici bancari non puliti. E un innocente che forse aveva visto più di quello che doveva vedere c’era andato di mezzo. Nel processo questa ipotesi era stata scartata perché non c’erano prove. Un fatto, però, nutriva i miei sospetti: quel collega di mio figlio non si comportava più come prima; lentamente lui e tutta la famiglia si sono allontanati.  

«Vendicare mio figlio significava per me ridargli la vita. Non so usare armi, ma le confesso che sarei stata capace anche di ammazzare. Quando si è disperati e soli non ci sono più regole. L’unica giustizia potevo farmela io. Tra gli spiritisti, mi è capitato di contattare una fattucchiera. Cosa volevo io? Che l’assassino di mio figlio sperimentasse sulla propria pelle lo strazio che mi attanagliava.

«Ho cercato anche il contatto con altre vittime della malavita organizzata. Eravamo in molti. Non soltanto madri, c’erano padri, fratelli, fidanzate, cognati. Non avrei immaginato che di fronte al vuoto delle istituzioni avesse preso piede una tale rete di “cercatori di giustizia”».

 

Maria Carmela mi scruta tra le lacrime, come attendendo una parola.

«Ma la vendetta non è risolutiva – inizio –. Sì, capisco, che la disperazione può far ricorrere alla violenza. Ma se ognuno di noi facesse così…!».

«Saremmo già sanati – interviene lei – da questo morbo che corrode le radici della vita sociale».

«Sono convinto che chi fa il male è già penalizzato. La sua condanna è già quella di essere capace di fare il male».

«Ma in questo modo, caro Gaetano, mai nessuno fermerà chi è contro la vita. Restiamo con le mani in mano ad attendere che questi maledetti criminali si ravvedano e chiedano perdono…».

«Lei è contenta di quello che ha fatto?».

«Beh, contenta, non direi. Mi sento colpevole, per niente appagata. Sono madre e so cosa significhi perdere un figlio. Mi fa paura il male. Si sa dove parte ma non quali conseguenze possa avere…».

Lascio che Maria Carmela si sfoghi, e intanto ascolto il gorgoglio di questo mare che da millenni assiste alle travagliate storie degli uomini. Poi, la donna, sollevando verso me uno sguardo quasi provocatorio: «Lei che dice di vivere per la fraternità universale, abbraccerebbe anche i mafiosi?».

Taccio, mentre lei continua: «Una notte ho sognato mio figlio. Quando mi sono svegliata mi sono sentita più sporca degli stessi assassini. Ho provato vergogna. Non sono più la madre che sono stata».

E dopo un’altra lunga pausa: «Dio è scomparso dalla mia vita. Oppure l’ho messo a tacere. La tragedia di mio figlio ha spento la speranza. E il veleno della vendetta sta uccidendo anche me».

Mentre le porgo un fazzoletto, chiedo a Maria Carmela se ha mai pensato, per amore del figlio, di perdonare. Mi guarda sconcertata: «Perdonare? Significherebbe approvare il male».

Ripeto a fior di labbra una frase di Martin Luther King: «Con la violenza puoi uccidere colui che odi, ma non uccidi l’odio. La violenza aumenta l’odio e nient’altro».

Intanto ci raggiunge la madre del mio compagno di scuola per invitarci ad un ultimo brindisi.

 

Mentre torno all’albergo con i miei colleghi, rumorosi e soddisfatti della splendida serata, ripenso al colloquio con Maria Carmela. Nella mia camera il telefono sta squillando. È lei, che impacciata, mi ricorda quella frase di Luther King: «Forse devo fare qualcosa prima di essere annientata dall’odio… Mi è passata l’idea di andare in ospedale a trovare la moglie dell’assassino di mio figlio… Una volta eravamo amiche e forse mi sta aspettando. Non so perché, ma questa mi sembra l’unica finestra che mi farà rivedere le stelle».

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