Una cultura della resurrezione

C’è un comando nei nostri computer che ha ridato familiarità ad una parola di origine latina, poi quasi dimenticata, ed ora riportata in auge dall’inglese: fragmentation. Nel linguaggio informatico, si indica con tale termine il fatto che i nostri file si dispongono sul cilindro dell’hard disk, del disco dove cioè si immagazzinano i dati, in modo non uniforme, spesso ubicandosi a pezzi, uno qua e uno là. Finché i file sono pochi, il problema rimane irrilevante; ma, nel momento in cui il disco raggiunge la saturazione di dati, la velocità di funzionamento del computer diventa insopportabilmente lenta. Giunge allora il momento di effettuare una defragmentation dell’hard disk, operazione che ricuce assieme i singoli file, e libera lo spazio che si era frapposto tra i singoli frammenti. E il computer ritrova la sua velocità di crociera. L’hard disk della cultura Mi viene in mente questo paragone allorché mi accingo a scrivere qualcosa dell’annuale summer school dell’istituto Sophia, ispirato al carisma dell’unità dei Focolari e alle sue implicazioni culturali. Mi viene in mente perché questo esperimento culturale, ancora agli inizi, un seme accademico, è un tentativo di risposta alla cosiddetta frammentazione del sapere. Il panorama culturale nei nostri paesi occidentali presenta in effetti una frammentazione sempre più accentuata dei saperi, che troppo spesso smarriscono il senso stesso del sapere. Non è raro il caso, come sosteneva Carlo Bo con la sua consueta ironia, di confrontarsi con scienziati che sanno assolutamente tutto sulle libellule del Mississippi nel tratto che scorre da Memphis a New Orleans, senza però saper più individuare periodo storico nel quale visse Giulio Cesare. Le invocazioni d’aiuto per ritrovare un perno centrale del pensare giungono da ogni parte, associando studiosi credenti, atei e agnostici. Si è persa bussola del sapere, sosteneva Claudio Magris. Mentre il filosofo Emile Cioran, esteta del frammento e dell’aforisma, esultava invece per un sapere finalmente ridotto in briciole, le uniche unità conoscitive che ci sia dato di investigare . Ma anch’egli cercò, invano, qualcosa che andasse al di là di semplici Confessioni e anatemi, come titolava un suo noto libro. E, guarda caso, proprio in questo periodo, anche per le tremende spinte tecnologiche che sembrano consentire al sapere di allargarsi a dismisura, ecco nuove discipline, quali le scienze della comunicazione, che paiono naturalmente universali e interdisciplinari, ma spesso si riducono ad enumerare una serie giustapposta di materie. E di fronte alle sfide politiche che l’occidente si trova a dover affrontare nel confronto con il sapere più monolitico che sia (almeno apparentemente), cioè quello dell’Islam, serve riconquistare qui da noi una nuova unità del sapere, se non altro per capire qual sia la finalità della nostra esistenza, prima ancora che dei nostri studi. Il senso del sapere Alla summer school dell’istituto Sophia m’imbatto in una convivenza che pare dire qualcosa di diverso sull’argomento: già le conversazioni con gli studenti – responsabilizzati come raramente ho visto in altre istituzioni educative – parlano di ricerca d’unità nella vita e nelle idee, di gettare ponti tra persone e tra discipline, di verità cercata nella carità. Sorpreso, m’intrattengo con alcuni dei docenti proprio su tale spinosa materia. Il prof. Giuseppe Maria Zanghì, filosofo, direttore della rivista Nuova umanità, individua nella storia del pensare occidentale tre fasi di sviluppo: alla più antica, quella del mythos, del mito, in cui l’unità del sapere era data dal riferimento alla onnipresenza avvolgente del divino numinoso, era seguita l’era del logos, del verbo, della parola, in cui l’autonomia e la differenziazione delle culture e nelle culture era andata accentuandosi, fino a giungere al rischio della Babele planetaria. Ora, secondo Zanghì, sta emergendo una nuova era, quella dell’agape, dell’amore, in cui la riunificazione del sapere sarebbe una diretta conseguenza della riunificazione della vita dell’uomo indotta dall’amore cristiano, capace di mettere in prospettiva dinamica sia l’unità che la distinzione delle cose umane. La sociologa Vera Araújo, da parte sua, sottolinea come non tutto sia negativo nella congiuntura culturale: Credo che la differenziazione – e non la frammentazione – sia uno sviluppo, in quanto è espressione della capacità dell’uomo di ampliare il proprio sapere, che naturalmente perciò si differenzia. Il rischio è che la troppa specializzazione faccia perdere al soggetto pensante, all’intellettuale, allo scienziato, quella visione d’insieme che è necessaria per un vero sapere. La studiosa brasiliana porta l’esempio della sua materia: Nella sociologia si assiste ad una differenziazione di discipline: ormai se ne trova una per ogni aspetto della vita sociale: se si vuole andare a fondo, bisogna specializzarsi. Ma nel contempo, se un sociologo non ha una visione più ampia, se non ha davanti a sé tutta la società, come può andare al fondo dei fenomeni sociali? Che senso hanno le sue conclusioni se non sono supportate e illuminate da una cultura di base? Ecco la sfida che si presenta oggi alla cultura e al sapere. Da dentro L’angoscia esistenziale che deriva dalla frammentazione del sapere pare dovuta, secondo numerosi osservatori, anche ad un oscuramento della componente religiosa nella società, che nei secoli e nei millenni – nel bene e nel male – avrebbe fatto da collante al sapere della società intera. Bennie Callebaut è sociologo delle religioni: In realtà le cose stanno un po’ diversamente, perché la religione in tutte le civiltà pre-cristiane non fungeva da collante quanto da tetto alla società nel suo complesso. Il cristianesimo proponeva un’altra visione sociale, perché Cristo ha rotto il paradigma che vedeva la religione dare sì un senso alla società, ma anche controllarla e condurla per vie molto strette. Il suo comportamento non era quello di un uomo d’apparato, ma di un attore sociale che rompeva le tradizioni per compierle appieno. Gesù spinge perciò ad immaginare un nuovo rapporto tra religione e società. Egli non ha scelto di agire dal di sopra e dal di fuori della storia dell’uomo, ma dal di dentro e dal di sotto: è questo il senso della croce, mentre la resurrezione significa la ratifica da parte del Padre – che è nei cieli – dell’opera del Figlio. Da tale analisi, Callebaut fa derivare una suggestiva risposta alla frammentazione del sapere: Nella interdisciplinarietà auspicata bisogna leggere un segno forte: ogni disciplina è un luogo dove si può dal di dentro camminare verso le altre materie, con la fiducia che una strada esista. La sfida consiste nel pensare che questa via sia legata a quella delle altre scienze. Il grido di Gesù in croce mostra come il cristianesimo non abbia paura di alcuna domanda. Perciò tutti i saperi umani non gli sono estranei. Tra i docenti dell’istituto Sophia, ci sono anche professori anglicani ed evangelici. Stefan Tobler, svizzero e riformato, ha una cattedra di teologia sistematica a Sibiu, nella Transilvania rumena. Nella nostra conversazione emerge un problema supplementare della frammentazione del sapere, quello indotto dalle divisioni politiche ed economiche: Trasferendomi a Sibiu, pensavo di andare verso oriente, lontano – mi spiega -. Invece lì ho capito che l’est dell’Europa è ancora più ad est, perché in Transilvania siamo ancora in Mitteleuropa. Il fatto è che noi abbiamo una visione fortemente sbilanciata ad ovest, geograficamente e culturalmente parlando. Più che una frammentazione interna al sapere occidentale, laggiù ho toccato con mano la differenziazione determinata dalla geografia e dall’economia, che impediscono un reale approfondimento culturale. Ne consegue che frammentazione e disuguaglianza sono fortemente connessi. Lavorare per il superamento dell’ingiustizia sociale porta a far convergere le diverse visioni del mondo. 30 professori e 200 studenti, dunque, per due settimane fanno tutto assieme, convinti che la frammentazione del sapere si vinca in primo luogo con l’unitarietà della propria vita e fra le proprie vite. Perché, in fondo, il problema è che la nostra stessa esistenza è ormai frammentata, tecnologizzata e polverizzata dal lievitare delle esigenze imposteci dalla cultura dominante, veicolata dai media. È il quarto anno, ormai, che l’istituto Sophia svolge la sua summer school, il secondo a Ottmaring in Baviera. Il quadro ambientale è certamente favorevole, in quanto ecumenico, che di per sé mette assieme. Le provenienze di studenti e professori, poi, sono le più diverse; ognuno porta con sé bagagli culturali diversi. Ma in comune c’è la frequentazione di una esistenza cristiana impegnata, tesa all’unità, la grande assente. Si fa vita comune, dallo sport alla preghiera, dalla condivisione della mensa a quella dei cuori. Ciò predispone anche alla comunione dei bagagli culturali e delle aspirazioni scientifiche. Il programma è fortemente interdisciplinare, con insegnamenti che spaziano dalla teologia alla matematica, dalla scritturistica alla politologia, alla bioetica. Che cosa le tiene assieme? L’approccio sistematico derivato dalla spiritualità dell’unità – che sta elaborando le sue categorie culturali -, e il desiderio di evidenziare i ponti esistenti tra discipline. Come conseguenza di ciò, il corpo docente partecipa compatto all’elaborazione delle lezioni, che vengono riviste per quanto possibile assieme, e poi proposte agli studenti. Un’assurdità accademica, o perlomeno una forzatura? No. Gli studenti stessi partecipano al tentativo di deframmentazione dell’hard disk del loro sapere, portando il loro contributo, non solo come sfruttatori dell’insegnamento, ma come attori che hanno da dire la loro. Come nascondere che la dispersione del sapere è anche frutto della separazione tra le generazioni, che si susseguono a ritmo sempre più infernale, al limite un anno-una generazione? Cassiciacum e Gymnasium Ad Ottmaring si respira un po’ degli ozi di Cassiciacum, in cui Agostino e i suoi contemplavano la bellezza e la verità di Dio in una convivenza basata sull’amore reciproco evangelico. Ma c’è anche qualcosa del Gymnasium platonico: il metodo dialogico è infatti l’unico che possa dare spazio all’interdisciplinarietà, perché così la ricchezza dell’uno può diventare ricchezza comune, senza dover passare per una fase di erudizione enciclopedica ormai impossibile. Mi spiega Vera Araújo: La nostra summer school, invece di puntare ad una specializzazione sempre più specializzata, propone a questi giovani un sapere culturale globale, che non disdegna la specializzazione, ma ha il gusto del sapere globale che dà senso e scopo al pensare: dà la possibilità di integrare i diversi saperi in una visione d’insieme. È un compito assolutamente non facile, gravoso, e rischioso. Ma è una sperimentazione che porta ad una certa serenità intellettuale, merce rara di questi tempi. Stefan Tobler conviene: Nella summer school si attua una vera comunione dei beni che rende possibile la partecipazione di giovani di paesi più ricchi e di altri più poveri. Ciò aiuta ad ascoltarsi sul serio, provocando l’incontro delle naturali differenze esistenti tra le persone ma anche tra le discipline. L’internazionalità è cambiamento. Conclude Callebaut: L’orizzonte proposto nella summer school è quello, indicato da Chiara Lubich, prima ispiratrice della scuola, di una cultura della resurrezione, in cui il mistero della passione di Cristo – col grido che dà voce ad ogni rottura e frammentazione – si apre alla luce della ritrovata unità. Anche del sapere.

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