Un Welfare partecipativo?

Con il lancio delle Linee guida per una Riforma del Terzo Settore e la conseguente consultazione degli operatori il Governo ha iniziato il percorso per modificare la legislazione che guida il noprofit. Nostra intervista a Tiziano Vecchiato, studioso e formatore del settore
Vecchiato

«Esiste un’Italia generosa e laboriosa che tutti i giorni opera silenziosamente per migliorare la qualità della vita delle persone. È l’Italia del volontariato, della cooperazione sociale, dell’associazionismo no-profit, delle fondazioni e delle imprese sociali. Lo chiamano terzo settore, ma in realtà è il primo». Questa frase campeggia nella premessa governativa alla Riforma del Terzo Settore. Al di là di enfatizzazioni o beatificazioni, sicuramente quello elencato è una realtà sostanziale che ha tenuto la barra della nave del Welfare a dritta, guadando un mare molto periglioso.

Il primo di ottobre è iniziato l’esame alla Camera del disegno di legge delega per la riforma del terzo settore, dell’impresa sociale e del servizio civile universale. La relatrice on. Le Donata Lenzi, in sede di presentazione del provvedimento ha sottolineato come il cuore della riforma sia «la costruzione di condizioni favorevoli alla crescita, al consolidamento, al riconoscimento di quel vasto campo di organizzazioni, che pongono il senso del proprio agire nella solidarietà reciproca o verso gli altri, nella generosità, nel dono di tempo, di lavoro, di risorse, nella costruzione di senso civico, nell’impegno per l’affermazione di ideali condivisi e per costruire il bene comune».

Queste come altre dichiarazioni che hanno accompagnato la presentazione del disegno di legge si richiamano a valori e finalità di grande respiro. I problemi vengono dopo, quando si entra nel merito delle scelte e dei contenuti normativi che le esprimono.

La riforma del terzo settore è un’occasione preziosa per un’operazione che allarga il sistema delle responsabilità sociali, senza squilibrarle in modo improprio. La riforma deve essere occasione per moltiplicare il corrispettivo sociale degli investimenti, potenziando il dividendo da mettere a bene comune, con soluzioni di welfare generativo.

Anche il Movimento Politico per l’Unità ha dedicato nei giorni scorsi uno dei suoi Laboratori Parlamentari di dialogo al tema di questa specifica riforma con la presenza di Parlamentari ed esperti.

Il documento presentato dal governo ha sicuramente il merito di mettere al centro del dibattito politico la questione del cosiddetto Terzo Settore. Su alcune idee, come quella di un forte rilancio del Servizio civile, non si può che essere d’accordo. Su altre occorrerà discutere nella sostanza.

Sicuro è che in Italia era necessario realizzare un ripensamento, una riforma del terzo settore, ma forse non così in fretta. Ne abbiamo parlato con Tiziano Vecchiato, direttore scientifico della Fondazione Zancan (il cui fondatore, Mons. Giovanni Nervo, è stato un’icona fattiva e profetica del terzo settore), membro di Social One – Scienze Sociali in dialogo e voce autorevole del Welfare non solo italiano.

Dott. Vecchiato cosa dire del percorso avviato?

«Le leggi delega funzionano se i contenuti sono ben caratterizzati, tenendo conto che quello che oggi può sembrare chiaro, potrebbe non esserlo domani. La possibilità di discuterne in modo approfondito è stata compressa con la possibilità di fare proposte. Ma i contenuti delle linee guida sono stati poi riproposti nella bozza di legge dopo la fase di ascolto. Nella proposta del Governo prevalgono congegnature di personalità giuridica, mancano altresì innovazioni strategiche necessarie per fare del Terzo settore un motore di sviluppo sociale ed economico».

Come raddrizzare il tiro?

«La Fondazione Zancan ha suggerito al Governo che la riforma sia occasione per moltiplicare il corrispettivo sociale degli investimenti potenziando il dividendo da mettere a bene comune con soluzioni di welfare generativo. La sfida parte da qui. Non è però compito solo del Terzo settore. Anche le Istituzioni sono enti non profit a cui si deve chiedere molto di più e a totale profitto sociale, mentre anche il for profit si sta chiedendo se non convenga investire in soluzioni a profitto variabile (privato e sociale) accettando la committenza di solidarietà espressa dal territorio. La riforma dovrebbe riguardare non solo il Terzo settore, ma le condizioni di produzione di beni comuni e più specificatamente il contributo che il terzo settore può dare con condizioni giuridiche e strategiche rinnovate.».

Cosa significa nello specifico?

«Anzitutto che il teorema che il bene pubblico possa essere meglio garantito da soggetti non profit è “idealmente condivisibile” ma “praticamente da dimostrare”, di volta in volta, per capire se e quanto vale il rendimento in socialità. In secondo luogo significa tornare ai fondamenti della Costituzione: le istituzioni sono non profit per statuto, missione e rendimento. Se non è così, se delegano senza ragione le proprie finalità costitutive (non solo quelle operative) a vantaggio di soggetti sociali per il solo fatto che la loro ragione sociale è “non profit” di fatto accettano un rischio. In parte è un rischio di delegittimazione, evidenziato dalla crisi di fiducia che oggi caratterizza il rapporto tra cittadini e pubbliche amministrazioni, in parte è il rischio positivo di potenziare il rendimento delle risorse a disposizione.

Per questo l’auspicio è che venga affrontata con determinazione la sfida della riforme: non riguarda solo le “forme sociali” ma anche e soprattutto il “rinnovamento dei rapporti tra istituzioni e forme sociali solidali”. L’obiettivo è di potenziare il rendimento sociale ed economico della loro azione. È un rendimento, come abbiamo detto prima, che non può essere accreditato preventivamente, ma da misurare successivamente e sistematicamente. Anche per questo la pluralità di soggetti che configurano il terzo settore e la complessità delle relazioni che essi intrecciano con gli attori istituzionali ed economici sono un patrimonio da meglio regolare, in un’ottica promozionale e di investimento, orientata allo sviluppo sociale con una migliore condivisione delle responsabilità.»

Tutto ciò come si può fare?

«Questo può avvenire valorizzando il capitale di connessione come strategia dello sviluppo rendendo possibili nuove forme di rapporto tra soggetti del terzo settore, istituzioni e soggetti produttivi. Le valutazioni di impatto sociale, le verifiche di ritorno sociale degli investimenti, con metriche adeguate, possono diventare titolo di credito preventivo per erogare servizi a famiglie e persone con risorse integrative».

Ma il terzo settore è un settore con una tradizione…

«Tra chi sta prendendo decisioni c’è gente che ha passato e l’esperienza va valorizzata, ma a volte può cadere nella tentazione di confermare se stessa, limitando la visione del futuro e l’innovazione.

Le nuove generazioni devono avere spazi di azione sociale. Negli anni ’80 le decisioni erano state preparate da nuove pratiche che poi negli anni ’90 hanno riconfigurato i rapporti tra Istituzioni, società e imprese. L’Italia ne ha avuto grande beneficio. Quindi c’è bisogno di un cambio di passo coraggioso»

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