Un virus nel muro

Una ballerina entra strisciando sulla parete e vi traccia con del gesso, dapprima una linea, poi la propria sagoma. Nuovi disegni si aggiungeranno col sopraggiungere di altri danzatori. Fra le scritte l’anagramma di Palestina. Il lungo muro grigio sul palcoscenico oltre a rappresentare l’ostacolo in sé, allude anche alla difficoltà dei rapporti umani e alla barriera metaforica che separa uomini e idee. Lo ribadisce pure il testo di Peter Handke Insulti al pubblico sulle contraddizioni del teatro, declamato – quasi una colonna sonora – indipendentemente dai movimenti astratti dei danzatori. Naha- rin’s Virus (in prima italiana al Reggio Emilia Danza) del coreografo israeliano Ohad Naharin, pone interrogativi e stimola interpretazioni. Figlio d’arte, un apprendistato alle scuole di Martha Graham e di Béjart, perfezionatosi con Kylian e Forsythe, coreografo dall’80 con debutto a New York, Naharin dirige dal ’90 la Batsheva Dance Company, compagnia d’Israele di prim’ordine. E che essa possegga tecnica e disciplina eccellenti lo si è visto in Naharin’s Virus: una danza spasmodica e controllatissima nelle armonie che disegnano lo spazio, fluida e avvolgente nella calma poetica delle sequenze. Creato molto prima della costruzione di quel muro che, come una ferita, oggi segna ebrei e palestinesi, lo spettacolo rimanda inevitabilmente al muro reale e si carica dell’inquietudine di una terra in conflitto. Ma la danza di Naharin odora di pace. Lo evidenzia anche la musica del compositore palestinese Habib Alla Jamal che accompagna la purezza astratta della straordinaria coreografia, chiusa con una danza mediorientale. Movimento, parole e musica, viaggiano paralleli, indipendenti, fino a fondersi e creare un’unità visiva e sonora di forte, emozionante bellezza.

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