Un politico fra la gente

Potrebbe sembrare un episodio lontano, l’Inchiesta parlamentare sulla miseria in Italia e sui mezzi per combatterla, realizzata da una Commissione di deputati della prima legislatura. Invece, a cinquant’anni di distanza, i problemi che emersero sembrano tratti dall’agenda politica, non solo italiana, di oggi. Al centro, la volontà di capire i meccanismi di produzione e di riproduzione della povertà, i modi di intervenire sulle comunità senza distruggerne l’identità e i valori, la necessità – accertata negli ultimi decenni da moltissime esperienze di cooperazione internazionale – di rendere i poveri stessi partecipi del loro sviluppo, come condizione indispensabile per la riuscita dell’intervento. E, sullo sfondo, il problema politico centrale: quello di riuscire a costruire uno stato che viva tra i cittadini e non lontano e al di sopra (il che spesso significa contro) di essi. Tutto questo si riassume nella vicenda dell’inchiesta che si realizzò a Grassano di Matera, paese abitato allora da 8.125 anime, che ebbe nell’on. Gaetano Ambrico uno dei suoi principali protagonisti. Stiamo parlando di una terra, la Basilicata, nella quale, nel dopoguerra, l’autoconsumo in agricoltura toccava il 45 per cento: significa che i contadini consumavano metà di quello che producevano. Ma, attenzione – sottolineava Corrado Barberis in un recente convegno, nella Sala del Cenacolo del parlamento, dedicato proprio all’approfondimento dell’inchiesta di Grassano -: l’autoconsumo non è solo un fatto di arretratezza economica, vi è anche legato un insieme di valori tipico della comunità contadina; una comunità che la successiva riforma agraria non ha capito, se ha cercato di strappare il contadino lucano dal borgo nel quale abitava, per metterlo in una casa nuova in mezzo alla campagna: metà delle case costruite per i contadini furono abbandonate, mentre non fu abbandonata la terra che venne distribuita. Fu una delle prime grandi ricerche empiriche in sociologia condotte in Italia; la prima, certamente, nel suo genere; un’inchiesta che, secondo Giovanni Russo, vincitore, nel 1954, del Premio Viareggio con Baroni contadini, era così seria che fece in qualche modo scandalo. Per Franco Ferrarotti è una ricerca che ha fatto storia, un documento culturale di rottura, una ricerca scientifica con grande valenza politica. Ci ha detto ciò che solo oggi cominciamo a capire: l’industrializzazione è un processo sociale globale. A nome dei sociologi italiani voglio riconoscere a Gaetano Ambrico di avere fatto una ricerca la cui validità scientifica dura negli anni. Gaetano Ambrico, appunto. Giovane deputato della prima legislatura, aperta dalla vittoria democristiana del 18 aprile 1948, appartiene alla cultura politica del cattolicesimo democratico. È l’anima dell’inchiesta di Grassano, e ci spiega che l’innovazione sociologica portata dalla ricerca sul campo non fu soltanto un fatto scientifico, ma l’espressione di uno stile politico che chiedeva uno strumento adeguato alla volontà di democrazia. On. Ambrico, in quale contesto sorse l’esigenza di una ricerca sulla miseria? L’inchiesta è nata dalla conoscenza della situazione angosciosa dell’immediato dopoguerra, che allora saltava agli occhi di tutti: la miseria diffusa, la disoccupazione incombente. Dopo le elezioni del 18 aprile, sotto l’impulso della vittoria, in parlamento ci fu la presentazione di numerose proposte di legge, spesso per iniziativa di singoli deputati, di tipo clientelare e corporativo, espressione di una impostazione politica volta prevalentemente alla conservazione del potere raggiunto. Bisogna tenere conto del contesto di allora; il rischio era stato grosso: se la coalizione di sinistra fosse riuscita a superare la prova, saremmo diventati una delle tante repubbliche socialiste dell’Europa orientale. La preoccupazione di De Gasperi era quella di consolidare la vittoria. Ma questa preoccupazione – se non fosse stata sorretta da una adeguata azione parlamentare che affrontasse i problemi reali e urgenti – poteva distrarre l’attenzione dal problema della povertà dilagante. Qual era la sua posizione? Giordani ed io – e tutto il gruppo di Cronache sociali – consideravamo la situazione in maniera diversa: c’erano dei problemi gravi ai quali bisognava dare una risposta; c’era da affrontare le riforme per le quali ci eravamo impegnati: la riforma agraria, ad esempio, che veniva sempre rimandata. In realtà eravamo davanti ad un bivio; da una parte, la scelta di partecipare all’attività del governo – Fanfani in particolare si orientò in questo senso -; dall’altra, tornare a essere minoranza, impegnandoci in una attività legislativa volta a dare ordine alle leggi, impedendo che si infossassero in problemi troppo particolaristici e segnalando al parlamento le vere priorità. Creammo così, il 12 ottobre 1951, la prima commissione che promosse l’inchiesta di Grassano e sulle zone depresse. Come operò la commissione? Si discusse a lungo sul modo di condurre la ricerca. Si verificò un divario di punti di vista, fra chi riteneva che bastasse fare una rilevazione statistica verticale sull’entità della povertà in Italia, servendosi degli Istituti esistenti; e chi era convinto, come me, che si dovesse condurre una ricerca orizzontale, comunità per comunità; e proposi di condurla su tre grandi città: Napoli, Roma e Milano e sulle zone più depresse del paese. Questa richiesta di indagine globale non fu accolta; ci veniva obiettato che in Italia non avevamo esperienze di questo tipo. La commissione decise di condurre l’inchiesta statistica tradizionale; ma ci fu data l’opportunità di fare un’esperienza, per creare un primo momento di ricerca metodologica, su una piccola comunità, significativa in quanto rappresentativa della povertà persistente; proposi Grassano, conosciuta ai più attraverso il libro di Levi Cristo si è fermato a Eboli; Levi ne parla molto bene perché, pur riconoscendo la consistenza della povertà, aveva incontrato, anche durante il fascismo, gente molto aperta e molto libera nel considerare le persone; il libro di Levi mi giovò per riuscire a fare l’indagine a Grassano. L’inchiesta di Grassano, per la sua situazione geografica e soprattutto per la sua situazione sociale, poteva essere molto significativa: circa 7 mila comuni, in Italia, si occupavano allora prevalentemente di attività agricole. La sua idea di una indagine orizzontale, tra la gente, non era solol’espressione di una posizione politica? Certamente. L’importante era ottenere che il parlamento non stesse lì, a Roma, ma che si inserisse nel paese, che desse al paese la sensazione precisa che la vita della gente non sfuggiva a coloro che erano stati chiamati in parlamento. Penso che questo esperimento sia abbastanza riuscito. Si costituirono diverse sezioni della commissione, per cui i deputati si divisero i vari impegni; un gruppo limitato di essi venne giù a Grassano; ma l’importante fu che a Grassano si è creato il gruppo di studio, che è rimasto per un anno e mezzo sul posto, chiedendo e ottenendo la collaborazione della gente; gli abitanti di Grassano non sono stati considerati come materiale di studio, ma come attivi collaboratori. Questa è stata una cosa veramente bella: l’esempio di partecipazione della gente, che si è resa conto che si trattava di affrontare il problema della povertà, di evitare che molti emigrassero per inseguire il lavoro. L’inchiesta riportava i deputati alla loro fonte, dalla quale avevano ricevuto la loro autorità. Lavorammo fino a parte del 1953. L’inchiesta ha portato a decisioni politiche concrete? Purtroppo non c’era allora, in ambito parlamentare, la sensibilità – e non ci fu neanche dopo – per prendere seriamente in considerazione le indicazioni che emergevano dall’inchiesta; il parlamento vi gettò una posizione accademica, ma l’espressioneuno sguardo distratto; i tecnocrati la considerarono un’azione di disturbo nella realizzazione – alla quale essi erano impegnati – della riforma agraria; che fu in realtà, a mio avviso, una mancata riforma, anche perché non teneva conto dell’esigenza di considerare in maniera umanistica il mondo contadino. L’inchiesta dimostrava l’esistenza di una comunità che possedeva una struttura sociale altamente raffinata e per molti aspetti superiore alle astratte strutture della società moderna in cui siamo abituati a vivere. Impensabili, dunque, interventi improvvisati per alzare il livello economico di una comunità così fatta: essi andavano accuratamente studiati al fine di evitare effetti controproducenti con la conseguente distruzione delle delicate strutture tradizionali, senza sostituirvi nulla di organico e vitale. Come si sarebbe dovuto intervenire? La nostra inchiesta mandava un messaggio molto semplice: lo sviluppo economico di quella, come di ogni altra comunità, esigeva ed esige che prima di operare bisogna conoscere con intelligenza d’amore. Si deve superare l’unilateralità che spesso caratterizza i politici e i tecnici; uno stato moderno deve saper creare un dialogo costruttivo tra i cittadini – soggetto sovrano e finale -, gli scienziati e i tecnici mediatori di razionalità, e i politici chiamati a realizzare la necessaria sintesi. Come proseguì la sua esperienza politica? Ho compiuto per intero la legislatura, insieme con Igino Giordani e Lazzati; Dossetti se ne andò via nel 1951. L’inchiesta non potette essere completata entro il giugno del 1953, quando finì la legislatura; fui incaricato da Gronchi di completare il lavoro, soprattutto per seguire la stampa; il volume riguardante Grassano uscì nel 1954; è il volume più importante, perché rappresentava la novità metodologica del lavoro della commissione. Costituiva un suggerimento: evitare la separazione che si stava approfondendo tra paese reale e istituzioni. Perché lei, Lazzati e Dossetti, lasciarono il parlamento? Ritenevamo che ormai il nostro impegno non potesse andare oltre, se non nella direzione obbligata che poi la Democrazia cristiana ha seguito; fino al 1963, quando ci fu una rinnovata impostazione, per opera di Fanfani e Moro. Io e Lazzati pensammo che fosse più utile lavorare fuori, in profondità, anziché rimanere in parlamento. Questa nostra valutazione non tocca, naturalmente, la grandezza politica di De Gasperi. Ma ormai il partito si era imbastardito, si erano create le correnti; l’esperienza della legislatura era stata tale da convincerci che non sarebbe stato possibile continuare un lavoro positivo. Fui poi sindaco di Grassano. L’inchiesta era dunque espressione di un modo di fare politica che la maggioranza del partito non condivideva? Ci fu una avversione sistematica, in particolare da Fanfani, cosa che ci stupì. Ma aveva una sua dottrina: non serve a niente essere deputato o consigliere nazionale del partito; devi essere almeno sottosegretario con portafoglio. Giordani condivideva questo suo disagio? Certo, e sapeva bene che alla fine, pur presentandosi alle elezioni, non sarebbe riuscito: lo dava per scontato. Si è presentato esclusivamente per senso del dovere. Parlavamo di queste cose, ma soprattutto dell’Ideale dell’unità. Eravamo sempre insieme; la sua grandezza era nella sua presenza; io, naturalmente, mi univo a lui. Una volta, un deputato monarchico ci incontrò in parlamento, e ci vide talmente felici che poi scrisse, in un giornale locale, paragonandoci agli apostoli dopo la Pentecoste, quando la gente si chiedeva, guardandoli, se non fossero ebbri di vino. Noi due, per la verità, tornavamo da un pranzo in focolare. E non avevamo bevuto.

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