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Un “pentagono di pace” in risposta alla violenza quotidiana

di Roberto Catalano

La violenza pervade sempre più il linguaggio e l’agire quotidiano, fino a fare notizia anche a livello internazionale ed a penetrare nei social media. Una proposta del vescovo Castellucci: «cinque azioni: un pentagono che a differenza di quello statunitense, ormai sinonimo di strategia bellica, è un pentagono di pace»

Sostenitori del libero commercio delle armi negli Usa EPA/JIM LO SCALZO

Con gli avvenimenti degli ultimi giorni a Gaza, in Ucraina – ma soprattutto in Polonia e Romania – molti settori, sia di carattere geografico che politico, come pure accademico e di semplice opinione pubblica tendono a essere d’accordo sul pericolo che il mondo si avvicini sempre più al baratro di un conflitto globale di cui è difficile prevedere le conseguenze.

Personalmente, ciò che più mi fa riflettere – al di là di questi conflitti veramente assurdi nelle rispettive modalità e crudeltà – è la “cultura della violenza” che ormai pervade il mondo, e, soprattutto, l’Occidente (Europa e Stati Uniti).

È una violenza che si coglie nel linguaggio quotidiano, come pure nell’agire, con punte che arrivano a fare notizia a livello internazionale – vedi l’omicidio Kirk nello Utah – e che ormai pervade tutti i social media, manifestandosi nel dibattito politico in molti Paesi fra cui, purtroppo, anche il nostro. La grande differenza con un altro periodo ad alto rischio come quello degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso è che allora nel linguaggio e a livello culturale dominava la pace, che voleva davvero essere la risposta al rischio nucleare e alla guerra del Vietnam. I milioni di giovani che sfilavano per le strade dell’America – e anche in Europa – erano convinti – anche se spesso in modo irenico – del valore della pace. E la pace si era fatta cultura, nella musica e nelle canzoni per esempio. La parola “pace” era molto più comune di “guerra”.

Oggi la situazione è diametralmente opposta da questo punto di vista. Basta pensare all’augurio di un presidente – di quella che dovrebbe essere la nazione più democratica del mondo – che si augura che un ragazzo di ventidue anni, sia pure omicida, sia condannato alla pena di morte. Per non parlare delle parole della moglie dell’ucciso che ha di fatto lanciato una vendetta pubblica. E si tratta di persone che si professano credenti.

Il problema è che Kirk, giovane e potente influencer di destra, era stato lui stesso promotore di violenza, incoraggiando milioni di suoi followers a dotarsi di armi da fuoco, arrivando ad insinuare che, tutto sommato, avere morti per uso improprio di questi strumenti di morte fosse il male minore. Ne è rimasto vittima lui stesso. Tuttavia, senza attraversare l’Atlantico, lasciano senza respiro alcune frasi che sentiamo nello scambio e confronto – se così lo si può ancora chiamare – di politici in Europa, in particolare quelli di casa nostra.

È proprio su questo uso costante della violenza nel nostro quotidiano che dimostriamo di quanto velocemente si stia camminando tutti verso un dramma incalcolabile. Ormai si parla di guerra costantemente, e non come di una possibilità: siamo tutti in guerra. Lo dimostriamo nelle parole che usiamo, nei post che leggiamo o trasmettiamo, nonostante l’innegabile movimento pacifista che si sta formando ma che fa difficoltà a farsi strada, perché cozza contro quella che ormai è diventata una cultura imperante.

“Un’anestesia emotiva che sta conquistando il mondo”, la definisce mons. Erio Castellucci, vescovo di Modena-Nonantola e Carpi, che recentemente si è rivolto alla gente della sua diocesi, invitando a fermare questa corsa mortale. Castellucci invita a considerare «cinque azioni: un pentagono che a differenza di quello statunitense, ormai sinonimo di strategia bellica, è un pentagono di pace» e che considera come tessuto quotidiano dell’azione ecclesiale.

Mi pare, però, che dovrebbe essere tessuto di ogni nostra azione come uomini e donne che vivono in questo mondo, al di là dell’essere credenti o meno, e senza considerare, eventualmente, le tradizioni religiose che seguiamo. Questi cinque punti invitano a sdegnarsi e alzare la voce, non per fomentare altra violenza, ma per mostrare una santa e salutare indignazione contro guerra e violenza. In secondo luogo, si parla di favorire il dialogo e per questo si auspica di poter disarmare le parole.

Ed è proprio questo il punto che più mi ha fatto riflettere. Oggi, infatti, la violenza avviene ogni momento proprio attraverso le parole, prima ancora che fisicamente. Ma è proprio la prima che porta alla seconda, e che, comunque, soprattutto quando usata da politici ed influencer porta a creare una cultura della guerra e della violenza.

Recentemente, mi sono trovato in due contesti completamente diversi a parlare di pace: in Corea con un centinaio di cristiani e buddhisti Won, e in Austria con teologi cristiani e musulmani sunniti (una ventina soltanto ma di quindici nazioni di provenienza).

Quello che mi ha colpito di questi due contesti, così diversi culturalmente e per estrazione culturale e religiosa, è come in entrambi i casi sia la gente comune che gli intellettuali, i credenti o i diversamente credenti abbiano messo in evidenza la necessità di acquistare la pace dentro ciascuno di noi, per essere capaci, successivamente, di portarla ad altri. Le persone coinvolte in questi incontri e dibattitti, gente tutt’altro che sprovveduta, sono ben coscienti di essere una minoranza e di andare contro corrente. Ma sono convinti che sia questa la soluzione per arrivare alla pace e cambiare la direzione di quanto sta succedendo. In effetti, solo uomini e donne in pace con se stessi e, di conseguenza, con gli altri – i “diversi” da ciascuno di noi o dalla nostra comunità qualsiasi essa sia – possono camminare sulla strada della speranza.

Mi è tornato alla mente – e ne abbiamo anche parlato – Gandhi, apostolo della pace, anzi no: della non-violenza, l’a-himsa. Un uomo capace di vivere con una coerenza incrollabile – sebbene dopo decenni di esercizio quotidiano – senza mostrare violenza nei confronti di nessuna creatura, umana e nemmeno animale: era un vegano assoluto. La sua era una non-violenza che si esprimeva nel linguaggio, ma anche nelle azioni. Il massimo a cui arrivava per convincere gli altri, era digiunare a oltranza.

Forse potremmo interrogarci su quanto ciascuno di noi, oggi, sia influenzato dal clima e dalla cultura della violenza e chiederci se possiamo tornare a essere “testimoni di pace” e, pure, di “rimboccarci le maniche e aiutare” concretamente nel costruire – o forse ricostruire – una cultura di pace. Essere testimoni e rimboccarsi le maniche, fra l’altro, sono insieme a pregare e intercedere – per quanti sono credenti – gli altri tre punti del pentagono della pace proposto dal vescovo Castellucci.

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