Un nevrotico zio Vania

In epoca di tragedie ecologiche suona come un monito la preveggenza del dottor Astrov, nello Zio Vania di Cechov, sulle future catastrofi ambientali causate dall’uomo. A cent’anni dalla nascita dello scrittore russo, il suo teatro continua a parlarci anche e soprattutto per la forza dei sentimenti che mantiene. E rivedere un gran testo come Zio Vania, aggiunge sempre nuove comprensioni. Perché le parole che si dicono i personaggi sono anche quelle inespresse che noi non sappiamo dire, ma che abbiamo dentro. La forza di un allestimento sta poi nel far sì che queste parole entrino nel cuore e nella mente. Esattamente quello che non succede nella messinscena di Nanni Garella. Il suo Zio Vania ha una rispettabile compostezza formale, ma non va oltre. Fra i testi di Cechov è quello in cui più che in altri sembra non succedere nulla. In realtà quel nulla nasce dall’inanità all’azione. I personaggi sono cristallizzati nelle loro abitudini, fra frustrazione e celata disperazione, fra vo- glia di vivere e impotenza. Quel che pesa è l’impossibilità ad agire e la loro immobilità psichica. Qui l’interpretazione prevaricante di Alessandro Haber va a scapito di quell’abituale aura di malinconia che, con qualsiasi chiave di lettura si affronti il testo, rimane la cifra, l’atmosfera, dello scrittore russo. Attore dal piglio nevrotico, Haber risulta febbrile, e il marcato accento emiliano non lo aiuta. Manca il Cechov dei silenzi. Haber è invece illuminante nella sua invettiva contro il professore, causa di tutto il suo malessere interiore, al quale, ubriaco, si rivolge guardando alla poltrona vuota dove poco prima questi sedeva. Nel finale la sua espressione facciale, attonita e svuotata, da sola dice il peso che ha nel cuore, mentre si accinge, spronato dalla nipote Sonia, a ricominciare a lavorare quando tutti sono partiti e la tempesta delle passioni si è placata. Al Quirino di Roma

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