Un Natale nei campi profughi fra Thailandia e Myanmar

Com’è il Natale, durante la pandemia, nel Sudest asiatico? Dalle strade colorate e trafficate da auto di grossa cilindrata, a Bangkok, un viaggio nei campi profughi al confine dei due Paesi del Sudest asiatico
(da George Ritinsky)

Passo per le strade di Bangkok, vicino a casa, e quasi non vorrei vedere questo spettacolo: i canti e le enormi decorazioni dei grandi magazzini annunciano a tutti che è Natale. Davanti all’ingresso dei centri commerciali, auto parcheggiate di grossa cilindrata intralciano l’accesso ai pedoni, in barba a tutti i divieti di sosta: Bmw, Mercedes, Porsche, Lamborghini.

Passo veloce con la mia bicicletta. Devo stare attento a non cadere, per le coperte e i maglioni che ho dovuto appoggiare sul manubrio: qualcosa l’ho comprato, ma la maggior parte l’ho avuta in regalo dal proprietario del negozio. Vedendo i miei acquisti, mi ha domandato: “A cosa ti serve tutta questa roba?” E io: “Per i rifugiati karen, a Mae Sot. Vado con alcuni amici ad aiutarli”. E lui, rivolgendosi alle commesse: “Allora andate a prendere anche la roba che c’è al secondo piano, per questo straniero. Partecipiamo anche noi alla vostra azione”.

La moglie non è convinta: “Qualcosa mi sfugge: questo straniero compra 9 maglioncini e noi gliene regaliamo altri 30? Che razza di business stiamo facendo?”. Ma lui abbozza e mi dice: “Vai e salutaci quella gente. E stai attento al Covid: non hai paura?”. “No – gli rispondo –, il covid non sta con i profughi, nei campi, ma tra la gente che frequenta i locali notturni”. Ed è proprio così, dalle notizie che circolano qui: chi ha frequentato i night club al confine con il Myanmar, e ritorna in Thailandia, porta con sé anche il temuto virus. Tra i poveri, che, grazie al cielo ho il dono di frequentare, il covid non c’è. Loro ed io abbiamo avuto la febbre dengue, e sembra che renda immuni anche al covid. “Non tutto il male viene per nuocere”, ha sospirato mia sorella a questa notizia, arrivata da un gruppo di scienziati brasiliani.

Arrivati a Mae Sot, abbiamo distribuito vestiti, cibo, materiale scolastico e… le nostre facce. Già, ci ha detto uno di loro, un amico: “In questo periodo così difficile, la cosa più bella è vedervi qui”. Infatti, molti profughi non hanno lavoro e hanno fame: fame sul serio.

(da George Ritinsky)

Siamo andati nelle piantagioni di canna da zucchero, di mais, di gomma: la gente era vestita di stracci sporchi e bucati. Per la prima volta nella mia vita mi sono vergognato di essere vestito, lo giuro. E mai come stavolta abbiamo svuotato le valigie, di tutto. Io sono ritornato a Bangkok senza valigia, con un sacco nero dove ho messo le cose sporche, che non potevo dare. Incontrare la gente che in questo Natale non avrà nulla, è importante. Qui non si muore di covid, ma per l’indifferenza di chi ha tutto e si lamenta che a causa del covid non può andare in giro a divertirsi. I profughi di Mae Sot non hanno cosa dare ai loro figli domani, ma non si ammalano. È incredibile. Rivedo nella mia mente le Porsche e le Lamborghini parcheggiate vicino a casa: “Quanta gente si potrebbe sfamare con una sola 911 turbo?”. Un calcolo approssimativo mi dice 12 mila persone, più o meno.

Abbiamo passato tre giorni con i più poveri dei poveri, al campo, a ridosso del ruscello che segna il confine con il Myanmar: c’era un amico che lavora in un’ambasciata e un altro che è dirigente in un’azienda, avvezzi a ben altri luoghi. Eppure li vedevo felici, estasiati a giocare con i bambini, e loro che li guardano esterrefatti.

Il momento pìu toccante di questi giorni l’abbiamo vissuto con 6 mamme, di cui 4 abbandonate dai mariti. Sei mamme e 15 figli. Abbiamo pranzato con loro e condiviso alcuni doni e vestiti usati. E poi le borse: le borse sono un bene unico e inestimabile per i karen: una borsa vale oro. Perché quando ti danno 15 minuti per lasciare la capanna dove vivi, devi avere almeno una borsa per mettere dentro p roba che puoi, e andare via, altrimenti può essere pericoloso. Questa è la vita da queste parti. Così prima di partire non ce l’ho fatta ed ho lasciato anche la mia valigia, avuta in regalo dall’Italia, per chi dovrà, magari fra poco, scappare velocemente dalla capanna.

Il momento ptoccante vissuto e che mi ha dato il senso del Natale? Un bimbo, piccolo, forse 8 mesi, che continuava a guardarmi e a ridere del mio naso lungo, un naso a cui lui non è certo abituato. Mi sono avvicinato e ha accarezzato il mio volto, ripetutamente. Mi ha ricordato alcuni momenti simili vissuti in Vietnam, anche lì con poveri e disabili. Questi bimbi mi ricordano il Bambino che celebreremo in tutto il mondo tra poco: anche lui piccolo, profugo, nato in una stalla. Come i bambini karen. Per i karen non c’è posto nelle case, solo nelle capanne delle piantagioni, dove i padroni non voglio andare per dare i diserbanti e gli insetticidi. Ci mandano i karen.

Questo è già stato il mio Natale: il regalo p bello che il cielo poteva farmi sono stati questi tre giorni, fuori da me stesso e dal mio piccolo mondo di reporter. Cari lettori di Città Nuova: Buon Natale anche a tutti voi.

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