Un museo della morte e della vita

A Lipsia, nell'edificio in cui aveva sede la polizia segreta dell'ex Repubblica Democcratica Tedesca.
museo stasi

Lipsia, ad agosto, è deserta. La vedo per la prima volta in una giornata nuvolosa, che rende ancora più tristi gli edifici di architettura staliniana di una città che si sta rinnovando, dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale e quelle, più terribili perché più sottili, degli anni della Repubblica Democratica Tedesca. Infatti, anche se il muro è caduto nell’89, le cicatrici qui, nel cuore della gente, bruciano ancora. Viene tuttora difficile fidarsi del prossimo, mi dice l’amico anziano che mi accompagna, portandomi a visitare il Museo della Stasi, cioè della polizia segreta: 60mila impiegati, 140mila “informatori”, si direbbe uno per famiglia.

 

Fa impressione tutto ciò nella città di Bach e Mendelsshon, due geni che in musica hanno creato pagine solo di gioia. L’edificio della Stasi è massiccio e crudele. Gelido nell’ingresso monumentale. Tutto è esposto con precisione infallibile. Sembra in qualche momento di assistere ad un film di spionaggio degli anni cinquanta-sessanta della guerra fredda . Soltanto che qui non c’è finzione, ma rievocazione di una realtà. Le stanze sono severe, dipinte in bianco e nero. Gli uffici dei burocrati di vario ordine e grado, di implacabile efficienza. Un tavolo con timbri, volumi di schede personali, telefono, macchina da scrivere, sedie metalliche.

 

Un’altra stanza ed eccoci al luogo angusto dove si svolgevano gli interrogatori: una sedia per il prigioniero e l’altra per il poliziotto, un riflettore – che si immagina di luce accecante sulla faccia dell’inquisito – e poi l’aria gelida che si indovina facilmente ancora oggi. In una vetrina, gli strumenti degli 007 della DDR: parrucche, macchine fotografiche, registratori a nastro monumentali e piccolissimi, telefoni di varie dimensioni, spugne assorbenti l’odore del “sospettato”, messe sotto la sua sedia, di nascosto, e poi fatte annusare da cani esperti…Oggi sembrano trucchi di vecchi film polizieschi, invece erano la norma di una vita sociale supercontrollata.

 

Di corridoio in corridoio, si arriva alle vetrine con gli indumenti dei carcerati, casacche a strisce e babbucce ai piedi, e poi le celle. Due materassi sopra il legno, un lavandino. Una sedia, la finestra in alto con vetri spessi: vivere mesi o anni in un luogo simile poteva far impazzire una persona, diventata ormai invisibile al mondo.

 

Chi mi accompagna ha vissuto in questo clima, si rende conto quanto un occidentale fatichi a comprendere la sofferenza di questo popolo. Lui ricorda bene quel giorno del 1989 quando, proprio davanti alla Stasi, centinaia di manifestanti invocavano la libertà dando il via ad una scintilla che poi ha raggiunto Berlino, provocando la fine del regime. Senza morti. Anche se, commenta, in quel giorno c’erano infiltrati della polizia che cercavano di seminare violenza. Ma alla fine la vita ha vinto. Perciò, uscendo da questo luogo di dolore e di terrore, e guardando il mio amico dagli occhi così vivi, mi viene da pensare che è vero: la vita si prede sempre la sua rivincita sugli strumenti della morte.

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