Un modesto strumento della Provvidenza

La storia di Marcello Candia, imprenditore milanese morto nel 1983. Il suo impegno dall’economia di mercato al Brasile degli umili
Marcello Candia

Il talento dell’ostinazione. Il 31 agosto 1983 moriva Marcello Candia, l’imprenditore milanese che, da ricco che era, lasciò tutto per dedicarsi ai poveri del Brasile. A 28 anni dalla sua scomparsa, di lui rimane un’eredità significativa: ospedali, asili, scuole, una fondazione che ogni anno finanzia decine di nuovi progetti e, ancora, una causa di beatificazione in corso. Niente male per un uomo che di sé diceva: «Io non sono nulla. Sono solo un modesto strumento della Provvidenza».

 

L’incontro con madre Teresa

Un giorno, per caso, incontrò a Fiumicino, per pochi minuti, Madre Teresa di Calcutta. Lui, che già da anni lavorava con gli ultimi, nel caos di un grande hub internazionale non riusciva a trovare il taxi. All’improvviso, vide lei che, invece, si muoveva con grande facilità in mezzo a tutto e a tutti. Li presentarono. Scambiarono qualche parola. Poi, Madre Teresa andò via rapida come era arrivata e lui, rovesciato su una sedia, disse con autoironia tipicamente ambrosiana: «Si vede proprio che lei è una santa. Io, invece, sono uno che tira sempre la carretta e ha solo il talento dell’ostinarsi».

 

La formazione professionale

Eppure, Marcello di talenti ne aveva tanti, tutti messi a frutto per il Regno di Dio. Aveva tre lauree, in Chimica, Farmacia e Biologia, e solo la guerra e il lavoro gli impedirono di conseguire anche la laurea in Medicina, che gli stava particolarmente a cuore. Diede il meglio di sé pure nell’azienda paterna, la Fabbrica italiana di acido carbonico, di cui divenne direttore generale a 23 anni e unico responsabile alla morte del padre, nel 1950. In pochi anni la rese una delle più moderne d’Europa. Insomma, ce n’era abbastanza per riempire un’esistenza, eppure tutto questo è solo un aspetto della vita di Marcello Candia, e non il più importante.

 

L’amore per i poveri e per le missioni

Fin da ragazzo, infatti, aveva nutrito un amore speciale per i poveri della sua città, Milano, ai quali dedicava tutto il tempo libero e i propri averi. Alla fine della guerra si era fatto carico della sofferenza di reduci e sopravvissuti che arrivavano laceri alla Stazione centrale, in particolare delle donne e dei bambini, per i quali creò nel giardino di Palazzo Sormani il Villaggio della madre e del fanciullo, che ospitava in baracche riscaldate un centinaio di ragazze-madri. Fondò, poi, un ambulatorio medico per i poveri presso il convento dei frati cappuccini di viale Piave, cui era particolarmente legato. Intanto cresceva la passione missionaria. E come sempre, il giovane industriale dava il massimo in ogni attività: fondò la rivista La missione, il Cuamm, Collegio universitario per aspiranti medici missionari, una Scuola di medicina e chirurgia missionaria. Ci fermiamo citando l’istituzione dell’Associazione laici in aiuto alle missioni (Alam), ma l’elenco potrebbe continuare. A chi gli chiedeva perché non si cercasse una fidanzata rispondeva: «Quando continui a pensare a tutto il genere umano, non puoi pensare a una sola persona!».

 

«Non aveva tempo di dedicarsi alle ragazze – commenta Gianmarco Liva, presidente della Fondazione Dr. Marcello Candia – perché, come lui stesso spiegava, doveva “restituire” tutto quello che aveva ricevuto in abbondanza: soldi, cultura, affetti familiari… Aveva un’ansia di restituzione».

 

Per capire stile e metodo ci affidiamo ancora alle parole di Liva, che conobbe Candia a una cena nel 1980 e da allora non smise mai di aiutarlo: «Per tutta la prima parte della sua vita – racconta – fu diviso tra il fare l’industriale e rubare il tempo per dedicarsi agli ultimi. E fece sempre bene entrambe le cose. Il rigore dell’industriale che deve far tornare i conti – aggiunge – condizionerà il missionario laico». Ed eccoci arrivati così al cuore dell’esistenza di Marcello, la sua più profonda passione: la missione in Brasile. Un sogno a lungo coltivato, perso più volte e infine ritrovato.


Il Brasile

Il desiderio di partire nacque in lui nel 1950, quando conobbe padre Alberto Beretta e, soprattutto, padre Aristide Pirovano, entrambi missionari del Pime, nel grande paese latinoamericano. Quello stesso anno, però, moriva suo padre e lui diventava responsabile unico dell’azienda. Si dedicò dunque a rafforzarla e consolidarla, rimandando la partenza a un futuro che sperava molto vicino. E invece dovevano passare quindici anni prima che il sogno diventasse realtà. Il colpo più duro arrivò il 22 ottobre 1955, quando un’esplosione distrusse il nuovo stabilimento della fabbrica, il più moderno d’Europa, inaugurato soltanto due settimane prima, provocando la morte di due operai che lavoravano in un’azienda vicina. I Candia non avevano responsabilità nel disastro, ma Marcello decise di risarcire i parenti delle vittime, donando di tasca propria un milione di lire a ciascuna famiglia. E poi si impegnò a onorare comunque tutti gli impegni presi con i clienti e a ricostruire tutto da zero. Nel giro di un anno lo stabilimento era di nuovo in funzione… e il Brasile sempre più lontano.

 

Raccontiamo questa vicenda nei particolari perché ci ha toccato profondamente l’atteggiamento con cui Macello Candia l’ha vissuta. Davanti alle fiamme qualcuno lo sentì dire: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto». Ma soprattutto, mentre affrontava perizie e cause legali, capì che quel che più contava era fare la volontà di Dio. Non dunque la missione subito e a ogni costo. In quell’occasione, come egli stesso ebbe a spiegare, Candia capì che Dio lo voleva sì in Brasile, ma solo dopo averlo purificato da tutto.

 

Finalmente, nel 1965, riuscì a partire. A molti sembrava strano che egli lasciasse ogni cosa, e a quasi cinquant’anni, per di più. Ma lui si sentiva chiamato a condividere con i poveri la loro vita, non gli bastava mandare loro un po’ del proprio superfluo.

Questa condivisione,accompagnata in tanti momenti dal Pime, certo fu molto faticosa, per lui che aveva sempre avuto tutto ed era cresciuto con camerieri in guanti bianchi al suo servizio. Oltretutto la salute aveva iniziato ad abbandonarlo (nel ’67 aveva subito il primo infarto). E poi, da industriale dinamico e abituato al comando, doveva fare i conti con mille difficoltà, pratiche e burocratiche.

 

Il servo di tutti

L’Amazzonia, dicono gli amici, lo trasformò, lo spinse a farsi servo di tutti. Si dedicò anima e corpo alla realizzazione dell’ospedale di Macapà, che volle grande, efficiente e che non mandasse mai via nessuno. «Voglio un ospedale missionario per i poveri – disse –, e quindi deve essere per forza in passivo. Se è in attivo, non è per i poveri». Naturalmente c’era il problema di trovare i soldi necessari, si chiedeva come avrebbe fatto quando sarebbero finiti i milioni che aveva da parte. Fu lì che assisté a un miracolo: a mano a mano che finiva il suo denaro, si moltiplicava quello che gli mandavano gli amici, gli operai della sua ex fabbrica e quanti coinvolgeva nella sua attività missionaria. Un’esperienza che continua ancora adesso, basti pensare che la Fondazione Candia, solo nel 2009, ha finanziato progetti per due milioni di euro: «Tutto quello che raccogliamo in un anno – racconta Liva – diventa budget per l’anno successivo, non capitalizziamo nulla. Ce l’ha insegnato lui. È uno stimolo a credere nella Provvidenza».

 

Sono molte le opere cui Marcello lavorò in Brasile, sempre, però, puntando a diventare a un certo punto inutile, perché, diceva, «non è cristiano realizzarsi in un’opera, bisogna realizzarsi solo in Dio». Glielo aveva insegnato Paolo VI, che parlandogli del futuro ospedale gli raccomandò di farlo brasiliano, senza paternalismi e con l’obiettivo finale di non essere più necessario: «Quando l’ospedale potrà continuare senza di lei – gli disse papa Montini – allora avrà realizzato una vera opera di solidarietà uman». La struttura di Macapà venne donata ai camilliani nel 1975.

 

Marcello dei lebbrosi

Fra i titoli attribuiti a Candia, il più azzeccato, dicono quelli che l’hanno conosciuto bene, è Marcello dei lebbrosi. Incontrò questi intoccabili, per la prima volta, nel 1967 a Marituba. Nel giro di qualche tempo, insieme a un gruppo di suore e preti a cui chiese aiuto, trasformò il lebbrosario, dove un migliaio di malati viveva abbandonato a se stesso, in un centro sociale moderno ed efficiente. Ma, soprattutto, capì che per guarirli bisognava usare il metodo di Cristo, che li toccava e amava, facendoli così sentire uomini. Marcello infatti li abbracciava, mangiava con loro, ne ascoltava i racconti. E mentre si donava, riceveva amicizia e affetto. Lì, diceva, il Signore gli aveva fatto trovare il centuplo promesso nel Vangelo.

 

Il 12 gennaio 1991, aprendo il processo diocesano di canonizzazione conclusosi tre anni dopo, l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini, definì Marcello Candia modello di laico impegnato e cristiano esemplare. Adesso che la causa di beatificazione è da tempo approdato in Vaticano, insieme a Gianmarco Liva pensiamo a lui come una risposta al giovane ricco del Vangelo: questi se ne andò triste, Marcello invece accettò l’invito di Gesù, vendette tutti i propri beni e trovò la vera gioia.

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