Un libro per scoprire l'”altro” nel laboratorio di scrittura del carcere di Marassi

E il mondo si chiuse fuori è il risultato dello sforzo creativo di un gruppo di detenuti del carcere di Marassi a Genova. Una storia in cui ogni autore si è dovuto inventare un personaggio e farlo interagire con quello degli altri. Il racconto dell'insegnate che ha coordinato il progetto, Grazia Paletta.
Laboratorio di scrittura del carcere di Marassi

E il mondo si chiuse fuori (Il Canneto Editore), uscito lo scorso 24 febbraio, non è un semplice libro. È il risultato di un gioco di squadra: dello sforzo creativo di un gruppo di detenuti dell’Istituto circondariale di Marassi (Genova). Il laboratorio di scrittura del carcere di Marassi, tenuto dall’insegnate di italiano Grazia Paletta, si è concluso nella stesura di questo libro. Chi ha preso parte al progetto, si è voluto mettere in gioco e ha voluto superare le mura del carcere con la forza dell’immaginazione.

Grazia Paletta. Fonte: profilo Facebook

Buongiorno dott.ssa Paletta, come è nata l’idea di questo libro?
Durante un corso di scrittura creativa che ho portato avanti dal 2016. Si facevano esercizi di scrittura molto divertenti, un po’ proposti da me e un po’ da chi seguiva il corso. Una volta ho detto: «Perché ognuno di noi non si sceglie un personaggio e proviamo a farlo interagire con quello degli altri?». La risposta è stata affermativa. Ognuno si è messo all’opera. L’ambientazione era un treno che si era fermato in Patagonia. Anche io avevo il mio personaggio. Ognuno doveva scrivere un pezzetto del racconto e la volta dopo ci saremmo confrontati. È stato divertente. Da lì è nata l’idea di scrivere un libro e la consapevolezza di poterlo realizzare insieme.

Che clima si respirava durante gli incontri?
Un clima bello e costruttivo. All’inizio è stata dura, ma con il passare del tempo i ragazzi hanno cominciato a essere propositivi. I livelli di preparazione erano diversi. Ma ognuno cercava di fare del proprio meglio e andava in “soccorso” di chi aveva maggiori difficoltà. Parlando venivano fuori vissuti, anche piuttosto pesanti, perché il carcere è un luogo di sofferenza. Ci sono stati momenti di riflessione profonda e di commozione generale. Ma c’era spazio anche per le risate. Quando si arriva a ridere vuol dire che si è a buon punto.

Ci sono stati dei momenti di sconforto?
Sì. Credo fosse inevitabile. In carcere è normale avere dei momenti di depressione, in cui si vede tutto nero. Un dolore e un disagio profondi che – quando emergevano – si percepivano. Quando abbiamo terminato il libro, però, c’era grande entusiasmo. Scrivere un libro per loro è una cosa importante. Vuol dire lasciare il segno per sempre.

Che valenza ha la scrittura creativa nelle carceri?
Affronta la detenzione in un’ottica riabilitativa. Si impara a giocare di squadra. A lavorare insieme agli altri e a condividere esperienze. L’attenzione verso il prossimo deve emergere perché le azioni di un personaggio devono tenere in considerazione anche quelle del personaggio altrui, altrimenti la storia non fila. Poi è un’attività che responsabilizza. Quando alcune persone sono uscite dal progetto, per motivi di varia natura, i compagni hanno mantenuto il personaggio e lo hanno portato fino in fondo alla storia.

Cosa le ha dato personalmente questa esperienza?
Mi ha dato tanto. Vedere i ragazzi che si rispettavano e lavoravano insieme è stata una grande soddisfazione. Sono nati anche dei rapporti umani molto intensi. Scrivendo, si fanno riemergere ricordi e si toccano delle corde dell’animo umano che solitamente con gli amici – nella vita di tutti i giorni – non si toccano.

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