Un gesuita nel Celeste Impero

400 anni fa moriva Matteo Ricci, pioniere del cristianesimo in Cina. Eventi e celebrazioni in tutto il mondo. Il suo metodo missionario fecondo ancor oggi.
Matteo Ricci

A Pechino la sua tomba è conservata nel cortile della Scuola del partito; nella Città imperiale c’è l’osservatorio astronomico a lui intitolato; il filosofo Ge Zhaoguang, nella monumentale Storia del pensiero cinese, dedica a lui ben due poderosi capitoli. Sì, a Matteo Ricci, il gesuita pioniere delle missioni cattoliche in Cina. Lui, che è stato allo stesso tempo uomo di scienza – filosofo, astronomo, matematico e cosmografo – e ardente seguace di Cristo. La rivista Life lo annovera fra le cento personalità più importanti del secondo millennio.

Di Matteo Ricci rimane emblematico il “metodo”, con il quale s’è guadagnato il titolo di “apostolo del cristianesimo in Cina”. Un metodo che oggi come allora suscita entusiasmi e diffidenze. Nella seconda metà del Cinquecento, la Cina era un Paese sconosciuto, avvolto nel mistero. Centro del mondo pareva essere ancora l’Italia, con l’America appena scoperta, Firenze che stupiva d’arte l’Europa e Venezia che intesseva traffici in tutto il Mediterraneo.

La Cina era lontana, un immaginario esotico sospeso nei sogni evocati dai racconti di Marco Polo. I gesuiti abbozzarono in quel tempo un progetto d’evangelizzazione della Cina. E scelsero quello che pareva l’uomo giusto: Matteo Ricci, di Macerata, classe 1552. Cominciò a prepararsi, con intelligenza e pazienza, quindi si mise in viaggio.

Arrivato in India, proseguì poi per Macao, sulla costa occidentale della Cina, dove trovò un compagno d’eccezione, Michele Ruggeri, e mise a punto il suo “metodo”, basato su cultura e carità. Era rimasto infatti colpito dalle parole dell’apostolo Paolo: «Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno». Matteo capì: doveva farsi cinese con i cinesi, per far loro conoscere Gesù.

 

Si sforzò d’imparare a perfezione la lingua cinese, studiò la storia millenaria dell’impero del Drago; si vestì come loro; viaggiò in lungo e in largo; non si sottrasse al confronto con gli studiosi. Entrò in Cina in punta di piedi: voleva che capissero che non era venuto per sconvolgere le loro esistenze, in cerca di onori e ricchezze. A lui interessava portare la grandiosa novità della Buona novella. Comprese che alcuni riti locali, come il culto degli antenati e l’equilibrata saggezza dell’antico maestro Confucio, così radicati nella loro vita, non erano incompatibili con il cristianesimo.

All’inizio ci furono difficoltà e insuccessi. Fu assalito da gentaglia che non gradiva il suo messaggio; denunciato e portato in tribunale; espulso dalla Cina. Ma ci ritornò dopo poco. Un po’ alla volta si conquistò la stima di letterati e mandarini. Diede alle stampe un catechismo in cinese. Spiegò alla corte dell’imperatore che il Signore del Cielo s’era incarnato, era diventato uomo; non in Cina, ma in un lontano territorio, piccolo e turbolento, chiamato Giudea. A quel tempo i cinesi si autodefinivano huaren, cioè “civilizzati”, mentre tutti gli altri popoli li consideravano barbari. Come poteva essere venuto qualcosa di buono al di fuori della Cina? L’esposizione lucida e pacata di Matteo però spiazzò l’imperatore e la sua corte. Li sconvolse.

 

Per aiutare il suo lavoro missionario, Matteo si diede da fare con le sue conoscenze di astronomo e geografo. Realizzò il celebre mappamondo, nel quale mise al centro la Cina, dandole la posizione d’onore, ma al suo fianco disegnò da un lato l’Europa e l’Africa, e dall’altro le Americhe. Si capiva così che c’erano altre civiltà accanto a quella cinese e alcuni ascoltatori cominciarono a interrogarsi sulla propria identità nazionale.

Matteo compose anche un Trattato sull’amicizia, per spiegare ai cinesi che gli occidentali non erano poi quei barbari che loro trattavano con un disprezzo neanche tanto malcelato. Negli ultimi anni della sua vita gli fu concesso di vivere a Pechino e l’imperatore gli diede il permesso d’aprire una chiesa. Nel 1584, circa sei anni dopo il suo arrivo in Cina, i cristiani nel Celeste Impero erano soltanto tre; quando morì, nel 1610, erano ben 2500, di cui 400 dimoravano a Pechino. Oggi sono circa 17 milioni i cattolici e circa 70 i cristiani: un numero sparuto, se paragonato al miliardo e mezzo di cinesi, ma neppure trascurabile, che contraddistingue una comunità coraggiosa e forte, sopravvissuta a prove durissime, come il periodo della rivoluzione culturale maoista.

Dopo la morte di Ricci altri gesuiti, sul suo esempio, continuarono a diffondere il messaggio cristiano in Cina, ma in Occidente non tutti apprezzavano il metodo di Matteo. Alcuni lo criticavano perché non capivano il motivo di sostenere le verità della fede con sentenze morali degli antichi saggi cinesi; pareva a loro una stravaganza che uno, prima di convertire gli altri al cristianesimo, dovesse convertirsi egli stesso alla cultura cinese.

Pressioni e giochi politici inquinarono poi le dispute, fino a che nel Settecento il papa ordinò ai gesuiti di lasciare la Cina.

 

Anche oggi il metodo di Matteo non convince tutti. Alcuni pensano che sia troppo laborioso e rischioso questo entrare e uscire da una cultura all’altra. Preferiscono la via di un annuncio più rapido e diretto. È vero: è un metodo difficile, che espone a rischi. Se non si è ancorati alla propria fede, come lo era Matteo Ricci, ci si può perdere per strada, invece di portare gli altri a Cristo.

Quello d’entrare a poco a poco nell’altro, affinché l’altro entri in noi, è un metodo paziente, che richiede di cercare, nelle parole dell’altro, quei granuli di verità sui quali si può lavorare per trovare una breccia verso la Verità, quella con la “v” maiuscola. Ma è un metodo che merita d’essere riscoperto. Perché è antico come San Paolo e radicato nell’essenza stessa del cristianesimo. E, a 400 anni dalla morte di Matteo Ricci, è ancora quanto mai vitale. Sorprendentemente in sintonia con le sfide odierne.

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