Un fragile dialogo in Myanmar

La brutale uccisione di 38 civili, nello stato del Kayin. L’incontro di Natale del cardinale Charles Bo con il capo del regime, il generale Min Aung Hlaing. La strada del dialogo è l’unica che possa dare un barlume di speranza in una situazione drammatica e apparentemente senza speranza.
Massacro in Myanmar (AP Photo)

In questi giorni, a chi mi chiedeva come vedessi la situazione in Myanmar, l’unica risposta che potevo dare è stata: «Male, e andrà sempre peggio». All’orizzonte sembra esserci solo guerra, e nient’altro che guerra. Non sono bastati i 70 anni di guerra civile, la più lunga nella storia dell’umanità: dal 1° febbraio 2021 è di nuovo iniziata la mattanza. Una carneficina.

Nessuna delle super potenze ha mai voluto dire basta alla sofferenza di questa gente, Rohingya compresi (870 mila in esilio in Bangladesh). Il Myanmar, in fondo, è un mercato dove le armi vanno a ruba. Ed il Myanmar è una nazione ricca di risorse naturali, ma sfortunatamente incastonata tra India e Cina, acerrimi nemici.

Giovanni Falcone consigliava di seguire il denaro, per riuscire a sconfiggere la mafia: una prassi che la comunità internazionale dovrebbe utilizzare anche per il Tatmadaw, ovvero l’esercito del Myanmar. Le forze armate del Myanmar, il potente Tatmadaw, il 1° febbraio scorso hanno arrestato la Consigliera di Stato, premio Nobel per la pace 1991, madame Aung San Suu Kyi (The Lady) e il Presidente del Paese, Win Myint.  Fino ad ora sono state uccise almeno 1.200 persone, per lo più giovani e giovanissimi, tra cui infermieri, medici, civili colpevoli di non accettare la restaurazione del regime militare.

Il Governo di Unità Nazionale, il Nug, ha dichiarato guerra, il 7 settembre scorso, al governo del generale Min Aung Hlaing, chiamando la popolazione a dare supporto alle Pdf (People’s Defence Forze), che avrebbero il compito di proteggere i cittadini combattendo contro uno degli eserciti più armati del pianeta: il Tatmadaw, appunto. Una chiamata alle armi rivolta a persone già sfinite da decenni di combattimenti, sprovviste di armi e di ogni tecnica di combattimento. Una chiamata che ha avuto effetti devastanti sulla popolazione, soprattuto nello stato (regione) del Kayah, a ridosso del confine con la Thailandia; come anche nel Kayin e nello Shan.

Il Tatmadaw ha risposto alla ribellione dei suoi cittadini bombardando intere città con artiglieria pesante, utilizzando elicotteri da combattimento di fabbricazione russa. Ci sono centinaia di migliaia di rifugiati interni (Idp) che hanno cercato riparo nelle foreste, a ridosso del confine thailandese ma anche fuggendo in territorio Thai, soprattutto nella cittadina di Mae Sot, provincia di Tak. In questa guerra tra sordi, cioè il Tatmadaw da una parte e il Nug con gli eserciti delle varie etnie dall’altra (compresa la popolazione che porta avanti la disobbedienza civile nelle città controllate dal regime), chi soffre e muore sono soprattutto giovani idealisti che si illudevano di riuscire a sconfiggere il potente esercito del regime in pochi mesi e con qualche attentato.

Il Cardinale Charles Bo e la Chiesa cattolica birmana stanno cercando da tempo di aiutare la gente, i poveri, e di aprire un dialogo con il generale Min Aung Hlaing (che papa Franceso incontrò durante la sua visita nel 2019 a Yangon, per chiedergli di fermare il genocidio dei Rohingya). Un atteggiamento, quello di aiutare i poveri, i feriti e i profughi, che ha causato alla Chiesa cattolica molti problemi con i militari: si è vista accusare di collaborazione con i “ribelli” del Nug. Parecchie chiese sono state assaltate, alcune bombardate con molti morti.

Il 23 dicembre si sono incontrati il cardinale Charles Bo e il generale Min Aung Hlaing: un’incontro speciale, preparato, per molti inaspettato e da non pochi criticato, fuori e dentro la Chiesa cattolica birmana. Anche dall’estero non sono mancate molte perplessità su questo incontro. Il generale ha addirittura donato 11 mila dollari al cardinale, come regalo di Natale, con grande scandalo di molti media. Un incontro per “parlare dei futuri sviluppi” che potrebbe rappresentare però uno spiraglio nuovo, un’apertura al cessate il fuoco. È questo che il cardinale, già nel suo discorso di Pasqua aveva auspicato: dialogo, riconciliazione, pace.

Combattere non porta a nulla: «Pistole e fucili non sono la risposta», sono state le parole che il cardinale ha pronunciato il 26 dicembre, tre giorni dopo aver incontrato il generale, alla notizia della brutale uccisione di 38 civili, nello stato del Kayin. Tra loro anche due giovani operatori di Save The Children.

Secondo Martin Griffiths, sottosegretario per gli Affari umanitari dell’Onu, non si trattava affatto di “terroristi armati” come afferma il regime, ma di civili inermi (compreso un bambino) fatti scendere dai veicoli sui quali stavano fuggendo, massacrati e i loro corpi dati alle fiamme.

«Quando questo finirà? – ha detto cardinale Charles Bo – Quando decenni di guerra civile in Myanmar cesseranno? Quando potremo avere una pace vera, giustizia, e vera libertà? Quando smetteremo di ucciderci gli uni con gli altri? Fratelli che uccidono fratelli, sorelle che uccidono sorelle: tutto questo non può essere una soluzione ai nostri problemi. Le armi non sono la risposta».

E dopo aver chiamato tutte le parti a deporre le armi, il cardinale ha citato la preghiera che papa Francesco ha rivolto in questi giorni al mondo intero: «Sostieni (Gesù Bambino) il popolo del Myanmar, dove l’intolleranza e la violenza non raramente colpiscono le comunità cristiane ed i luoghi di culto, oscurando il volto pacifico della popolazione».

Occorre andare avanti, su questa strada tortuosa e difficile del dialogo, quella indicata dal cardinal Bo, perché, come disse Pio XII nell’agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace: tutto può esserlo con la guerra».

 

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