Un faro nella mia notte

Da Zurigo mi raggiunse ad Ancona. Si scusò dell’arrivo non annunciato. Voleva mostrarmi la sua nuova auto. Quando seppi a che ora era partito, fu evidente che aveva guidato come un pazzo. Le auto erano state sempre la sua passione. Gioivo nel vederlo vestito bene, mi sembrò anche in buona salute, addirittura più giovane di quando lo avevo conosciuto tre anni prima. Era sereno e felice. Poi mi chiese di accompagnarlo alla macchina. Aprendola, avviò una cassetta già inserita. Erano le canzoni di Mina che gli avevo regalato. Ritrovai quel tempo, quando lo avevo incontrato che girovagava nei pressi dell’uni versità che frequentavo a Roma. Mi chiese una sigaretta. Non fumando, proposi qualcosa al bar. Prese un cappuccino, divorò uno, due cornetti. Era una settimana che non mangiava. Il suo pallore era strano. Quando volle l’indirizzo non glielo negai, forse perché faceva parte della mia scelta aiutare sempre tutti. Gli incontri che seguirono furono le puntate di una storia che Ric, raccontandomela, riviveva. Figlio unico di una coppia felice, dopo un’infanzia senza privazioni non fece grandi passi con gli studi superiori. Lavorò gestendo il bar di un amico dei genitori. Sapendoci fare, il bar presto fu di sua proprietà. In quel locale lavorava una ragazza che divenne sua moglie e, data la sua bellezza, si rivelò facile accompagnatrice di clienti che la pagavano bene. Deluso e tradito, Ric cominciò a bere più del necessario. Qualche rissa violenta, la moglie sparita dalla circolazione, giro di droga. Denunce. Sospensione dell’esercizio. Processi. Arrivò in Italia per ricominciare a vivere, diceva lui. Qualcuno gli aveva soffiato nell’orecchio che qui avrebbe sfondato come attore. Aveva un fisico che non lasciava indifferenti ragazze e signore. Lentamente si bevette i soldi che aveva, poi i vestiti e la macchina. Risalire non era facile. Ma il commercio della droga assicurava guadagni immediati. Quando ci incontrammo era reduce da una settimana a digiuno. Non era vestito male, ma quello che veniva in evidenza era un immenso disagio e il bisogno di aggrapparsi a qualsiasi filo d’erba per non cadere nel vuoto. Tu mi sembri felice, senza problemi , mi disse quasi con invidia. Lo rividi un giorno all’ora di pranzo. Era venuto a chiedermi di aiutarlo a scrivere in italiano una domanda per un probabile lavoro. Non convincevano i dati che aveva. Ma prestai l’aiuto richiesto. Mi chiese di preparargli un panino. Mangiando, mi confidò che voleva venire fuori da un certo giro di spacciatori dove si era trovato nella speranza di riprendere quota. Con l’aiuto di amici, trovai anche un lavoro provvisorio che gli assicurava cibo e alloggio. Un giorno si presentò piangendo: i suoi genitori stavano male e lui non poteva raggiungerli. D’altra parte, se anche fosse riuscito ad andare, non voleva far vedere quanto fosse fallito nella vita. Misi insieme i soldi per un biglietto aereo, vestiti decenti e qualche regalo per i suoi. Gli consigliai di restare a Zurigo con maggiori possibilità dell’Italia. Si schermì facendomi l’elenco di tutte le promesse che gli avevano fatto e dei provini per i quali aveva già appuntamenti. Tornò presto. Felice di aver rivisto i suoi. La moglie ormai da mesi non si era fatta viva con nessuno dei parenti. E pensare che sognavo una famiglia con tanti bambini. Lei ha infranto i miei sogni. Ma ora mi rifaccio la vita. Ho pensato che potremmo preparare il soggetto di un film. Tu scriveresti la sceneggiatura… . I suoi sogni erano sempre dalle tinte forti. Bastava ascoltarlo e si scolorivano da soli. I nuovi sostituivano quelli del giorno prima. Con il tempo i sogni diminuirono e sembrò che tutto si riassestasse. Era già estate. Ero rimasto a Roma per lavorare alla mia tesi di laurea. Una sera tardi mi arriva una telefonata. Sto morendo, sto morendo! . Dove si trovava? Non poteva dirmelo. Mi chiese però di attenderlo al capolinea del tram. Quando il tram arrivò, più che scendere ruzzolò dai gradini. Lo aiutai ad alzarsi. Lo portai dove abitavo. Era talmente malmesso che non arrivò nella stanza, ma cadde a terra. Una bava verdastra gli usciva dalla bocca. Telefonai ad un amico medico il quale mi diede qualche consiglio e mi fece capire che forse non era soltanto ubriaco. E in tal caso si prestò ad aiutarmi. Furono giorni di deliri, di grida, di confessioni. Intuivo cose gravi nella sua vita. Era successo, lo seppi dopo, che gli spacciatori per i quali aveva lavorato, temendo che lui spifferasse i loro nomi, lo avevano ben bene sistemato con una iniezione di acido. Dopo cinque giorni sembrava tornato normale. Mi chiese una birra. Non ce n’era in casa. Uscii per comprarla. Quando tornai, Ric non c’era. E non c’erano più i soldi che avevo nel cassetto per pagare l’affitto e per le spese del mese. Forse mancava qualche altro oggetto, ma il senso di fallimento e di delusione erano più insopportabili del furto. Mi chiedevo dove avevo sbagliato, se lo avevo veramente aiutato. Sapevo quale bar frequentava. Lo raggiunsi. Stava bevendo e offriva generosamente da bere agli altri. Appena mi vide, mi gridò di togliermi dai piedi. Con lo stesso tono gli ricordai che quei soldi non erano superflui, erano necessari. La mattina dopo, uscendo da casa, lo trovai che dormiva dietro la porta. Appena mi vide, mi restituì quanto gli era rimasto dalle bevute. Mi diede anche una specie di cartolina forse scritta ancora al bar, visto l’unto e le pieghe, con questa frase: Giurami che non mi abbandoni!. Lo trascinai dentro casa. Restò rannicchiato sul corridoio. Presto cominciò a russare. Davanti a quel corpo senza volontà, l’unica cosa che girava nella mia testa era come liberarmene. Ma nello stesso pensiero si intrufolava la domanda: Quale amore giurare?. Non mi sentivo capace di amare. Si svegliò quando gli misi a terra una tazza di caffè, facendo tintinnare il cucchiaino. Un sorriso grato e due occhi pieni di lacrime cancellarono ogni dubbio. Non potevo tirarmi indietro. E anche Ric fece tutto lo sforzo per farcela. Quando seppe che da Roma mi trasferivo ad Ancona, dichiarò con grande compostezza che anche se potevo sentirmi fallito, in realtà avevo vinto io. E mi assicurò che avrebbe seguito il mio consiglio di tornare in Svizzera. Per tanto tempo non seppi più nulla di lui. Un giorno mi telefona con voce squillante. Mi comunica che dopo il divorzio da Ester, avevano diviso i beni. Si era comprato un appartamentino ed anche il lavoro sembrava rendesse bene. Sei rimasto come un faro che illumina la mia notte. Io non so perché tu l’abbia fatto, ma se questo è l’amore, vorrei anch’io vivere come te!. Ora Ric era davanti a me. Aveva recuperato pace, salute. Parlava anche con più calma. Mi sedetti in macchina con lui per finire di ascoltare la canzone di Mina. So a cosa pensi – mi disse -, vorrei dimostrarti che sono cambiato. È difficile perdonare?. Il suo discorso si snodava su un binario lontano da me. Lui capì che non era quello che volevo sentire. Non sai quante volte ripercorro certi momenti passati. Ma non so se posso chiamarli passati, perché tutta la mia vita è ancora una ciambella non cotta, un palazzo non finito… e tu mi devi aiutare. Non puoi tirarti indietro ora. Non capivo quello che Ric diceva. Le parole erano chiare, ma dette da lui non so quale valore avessero. Forse perché aveva abusato della mia amicizia o almeno della solidarietà che gli avevo dimostrato. L’alcol è una brutta cosa. Ricordi le piaghe che avevo alle vene delle gambe? Ne ho altre, ma molto più profonde e virulente, nella mia testa. Il vero male è che non mi fidavo di nessuno e, pur non fidan- domi, mi aggrappavo a qualsiasi cosa per sopravvivere. Gli altri mi servivano. Anche tu mi servivi. E ti ho sfruttato. Poi, però, facendo violenza su me stesso, ho seguito il tuo consiglio, sono stato in ospedale. La cura ha funzionato. Non ho più voglia di bere. Ma la mia casa è vuota. Gli amici erano quelli delle bevute. I miei genitori sono vecchi e meritano la mia attenzione. Ester è una prostituta di lusso. Perché hai fatto quello che hai fatto? Come resistevi a non vomitare vedendo la sporcizia delle bende già incollate alla ferita? Chi ti dà questa forza?. Alla domanda di Ric, si presentò non una risposta ma il ricordo di un momento vissuto con lui. Un giorno, eravamo andati al Tuscolo. In mezzo ai ruderi dell’antica città, lui camminava silenzioso e assente. Io dietro e seguivo il ritmo del suo passo. Ero solo, come lui. A un certo punto, guardando dei papaveri impolverati che nascevano ai piedi di un antico muro, mi sembrò che al mio passaggio si ravvivassero e mi rivelassero un segreto: erano solidali con me, non dovevo sentirmi solo. I papaveri, un fiore così fragile che non si vende e non si compra! Quella fragilità mi capiva e mi ricordava l’amore di Dio, un amore che ha bisogno della mia accoglienza. Ecco qual era la fonte della mia energia. Ric non pretese risposte. Gli bastava la gioia di vedermi sorpreso per i regali che mi aveva portato. Ripartì neanche un giorno dopo. Lo risentii per Natale, quando mi disse quanto fosse opprimente la solitudine. Dopo qualche mese mi arrivò una chiamata da una clinica. Ric piangeva e chiedeva perdono. Non capivo. Perché mi chiedi perdono? . Perché ho fatto qualcosa contro la vita e contro di te. Mentre assieme al sangue si allontanavano i pensieri, l’ultimo fu che non avevo il diritto di togliermi la vita. Gridai aiuto. Non ricordo altro. Ora vorrei dirti una cosa. Tu vivi perché sei innamorato della Vita. Di questo amore mi hai contagiato. Ora è mio. Neanche tu puoi togliermelo!.

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