Un coro nel disgelo

Appassionato indagatore di una precisa epoca storica, il regista siberiano Lev Dodin continua a parlare della società sovietica per farvi affiorare la condizione esistenziale dell’uomo. Sono memorabili gli spettacoli corali che lo hanno rivelato in Occidente: Fratelli e sorelle, Gaudeamus, Chevengur. Ora con Il coro di Mosca – testo del 1989 di Liudmila Petrushevskaja, tra le autrici della perestrojka gorbacioviana – egli affida la regia ad un suo degno allievo, Igor Konjaev, per mettere a fuoco un momento cruciale dell’Urss: l’inizio del breve disgelo dopo il periodo staliniano. Pur ambientata nel 1956, l’opera non è estranea alla più stretta attualità, perché parla di lotta per la sopravvivenza, di generazioni in subbuglio, di emarginazione e di desiderio di benessere. Un geniale ammasso di mobilio a più piani, di letti, armadi, tavoli, sedie, compone un appartamento comune ai tempi della coabitazione forzata. In un continuo saliscendi si succedono le difficili e grottesche vicende di un nucleo famigliare in cui sono presenti più generazioni, con intrusioni di parenti e di vicini che compongono un coro amatoriale alle prese con le prove per un concorso canoro all’estero. Ed è un presepe di apparizioni con scene di vita quotidiana dura dove si alternano angoscia e comicità, sotto lo sguardo della vecchia Lika, fragile, mezza cieca, ma navigata, che si adatta ai tempi che cambiano. Il riapparire di una sua sorella, convinta bolscevica ora epurata, suscita ulteriori scompigli e recriminazioni. Sarà il ritorno del capofamiglia, comandante di marina, venuto ad annunciare alla moglie di volerla lasciare per un’altra donna già in attesa di un bimbo, a innescare la miccia dei fuochi incrociati. Ma poi ritornerà, disoccupato e senza casa, a chiedere aiuto. Ciò che resta, alla fine, è un profondo senso di solidarietà davanti allo smarrimento che accomuna tutti. E la speranza in un domani migliore affiora in quel coro finale che canta, ciascuno tenendo un fiore in mano. La drammaturgia sembra attingere al vissuto dei numerosi interpreti. A cominciare dall’anziana protagonista Tatjana S?c?uko, esile e bianca, di intensa interiorità. E con un lunghissimo applauso l’ha salutata il coinvolto pubblico, cui si sono uniti tutti gli attori del Maly Drama. TRA RADICI E MODERNITÀ Fra i molti meriti del Festival Russo (ideato da Musica per Roma) c’è quello di averci rivelato quanto, nel paese della grande tradizione classica, ferva oggi la danza contemporanea, con livelli tecnici e stilistici che sorprendono. Ne sono un esempio due diverse coreografe, Olga Pona e Tatjana Baganova. Entrambe hanno assimilato la grammatica della danza americana ed europea, applicandola alle loro radici culturali. Con risultati già maturi. Olga Pona, con www.volti.ru, tra filmati in bianco e nero ed esposizione finale di foto d’album con volti tipici che dicono la loro unicità, propone il vivere quotidiano di un villaggio che diventa lo specchio di un’intera società. Così è anche ne L’attesa, una dimensione del tempo che contraddistingue il ritmo della vita russa: attesa di un domani migliore prima col comunismo, ora col capitalismo; attesa dell’amore, ma anche semplicemente del bus e del treno; o, da dietro minuscole finestre, l’attesa del marito che non torna, mentre fuori cade la neve. Della Baganova abbiamo apprezzato soprattutto la personale versione coreografica de Le nozze, la cantata con danze di Stravinskij: celebrazione di un rito dove due giovani spauriti si fanno sposi per il volere delle famiglie nell’antica Russia pagana. Balletto creato nel 1923 da Bronislava Nijinska e ripreso nel corso del ‘900 da altri importanti creatori – Bejart, Robbins, Kylian, e, più recentemente Preliocaj e Bigonzetti – nella lettura della giovane coreografa diventa nuovo e ricco di elementi figurativi e drammaturgici. Attingendo alla tradizione degli slavi del nord, la treccia diventa l’elemento simbolico della femminilità che lo sposo deve tagliare con le sue mani.Tra echi di ritualità, quinte inondate di rosso, scene di massa e duetti di acceso lirismo, gli otto magnifici ballerini danno potenza gestuale a quei sentimenti che alla fine diventano il sacramento del rito cristiano. Al suono delle campane sfilano figure con candele sulla testa: segno di una nuova vita che inizia.

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