Un bengalese trentino

La storia di Alamgir, che dal Bangladesh è arrivato prima a Roma, dove ha conosciuto la moglie Elisa, e poi a Lavis
alam

Alamgir Jahan, bengalese di nascita, vive in Italia dal 1991. Ha abbandonato la sua terra per trovare lavoro all’estero. La sua storia è simile a quella di molti immigrati che hanno fatto del vecchio continente la loro seconda casa per questioni di lavoro. Perfettamente integrato, ora vive da qualche anno a Lavis (provincia di Trento) con sua moglie Elisa, originaria di Roma con due stupendi maschietti. A fine aprile era ospite ad un incontro pubblico, che ha avuto luogo proprio a Lavis, dal titolo «Le migrazioni di ieri e di oggi. Un viaggio fra storia ed attualità». In quella sede, con voce emozionata, ha raccontato la sua storia.

 

«Sono arrivato in Italia nel 1991 – racconta – vivendo da clandestino per cinque anni. In Bangladesh ho avuto un’infanzia molto felice trascorsa giocando a calcio senza scarpe e correre lungo le rive del fiume. Nel 1988 morì mio papà. Avevo 15 anni con alle spalle quattro fratelli, una sorella e la mamma. Sono andato quindi a lavorare in una fabbrica di tabacco per una ditta inglese, ma i soldi guadagnati non erano sufficienti per mantenere la famiglia, e quindi sono andato in Malesia dove ho vissuto sei mesi senza trovare lavoro. A quel punto decisi di raggiungere mio cugino in Italia: era il 1991 ed avevo 17 anni. Ho vissuto per molto tempo a Roma. Facevo qualche lavoro ma, poiché non guadagnavo abbastanza per mantenere la mia famiglia, ho deciso di cambiare trovando un impiego in una tintoria. Nel 1996 fu possibile ottenere il permesso di soggiorno, e finalmente – afferma sorridendo – potevo andare a ballare in discoteca, dove ho conosciuto mia moglie. Nel frattempo ho fatto un corso d’italiano, di pizzaiolo e cuoco. Ho fatto anche il cameriere ma, poiché con 800 euro al mese era impossibile sostenere la famiglia, mi sono trasferito a Trento, da mio cugino, e dopo due giorni sono stato assunto come cuoco in autogrill. Qui in Trentino i miei figli vivono in un ambiente civile e sicuro. Ci sono molte persone generose. Vivo in Italia da venti anni e sono cittadino italiano, però non posso scordare la mia cultura bengalese, perché è impossibile dimenticare la propria patria e le proprie origini».

 

Alamgir, in privato, nella sua casa davanti ad una buona tazza di tè e assaggiando il «chanachur», una specialità piccante a base di riso, farina di ceci e nocciole, ci racconta altri aspetti della sua vita. Racconta che a Trento, rispetto a Roma, Venezia e Vicenza, la comunità bengalese è poco numerosa. A Roma ci sono circa 20 mila bengalesi. Quelli regolari lavorano nella ristorazione e nel commercio e gli altri si arrangiano come meglio possono. Esiste anche un’associazione di nome «Dhumketu», ( in italiano «cometa») che aiuta i bengalesi in difficoltà trovando casa e lavoro. «Quella di Roma – spiega – è una comunità chiusa, anche se le cose ultimamente stanno cambiando grazie ai giovani bengalesi iscritti alle scuole e che quindi frequentano i compagni italiani. In Italia il livello d’integrazione è buono, anche se gli immigrati sono spesso presi di mira dal mondo della politica. In fondo lo Stato, per i fondi pensione, attinge dalle tasse pagate anche dai lavoratori immigrati». Ci racconta anche una cosa interessante. «A Roma, poi, un clandestino ha anche vita facile perché ci sono più immigrati rispetto a Trento, quindi ci si confonde maggiormente con la massa. Poi, un immigrato irregolare mica sulla fronte riporta la scritta “io sono clandestino”. Se uno si comporta bene, difficilmente viene fermato dalla polizia o dai carabinieri».

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