Un altro modo di lavorare e di vivere il conflitto

Torniamo ancora a Pomigliano con la seconda parte dell’intervista a Antonio Di Luca, operaio Fiat in cassa integrazione. La violenza non risolve i problemi. Il ruolo della società civile e la vita in fabbrica  

Nella seconda parte della nostra intervista ad Antonio Di Luca, operaio metalmeccanico a Pomigliano D’Arco entriamo nel dettaglio delle proposte di organizzazione del lavoro, nel nuovo modello di fabbrica proposto da Marchionne. Importante capire anche il conflitto e le modalità pacifiche di affrontarlo. 
 
Che soluzione alternativa propone? L’adozione del modello partecipativo della Volkswagen?
«Un vero punto di svolta si avrebbe puntando sull’innovazione dei prodotti e dei processi produttivi ma è chiaro che ci vuole un coinvolgimento del pubblico. Posso capire il dottor Marchionne quando non si avventura sulle macchine elettriche, ma se si ragiona assieme al Governo, Enel o l’Eni per distribuire colonnine elettriche su tutto il territorio nazionale allora il discorso cambia. Deve esistere una decisione condivisa sulla necessità di una mobilità sostenibile. Questa è la vera sfida che andrebbe affrontata. L’esempio tedesco è eclatante perché ci troviamo davanti a lavoratori che percepiscono paghe molto più elevate delle nostre, lavorano meno ore e si trovano con società in crescita e con forti utili, (a gennaio, alla Volkswagen sono stati pagati premi uguali per tutti di oltre sette mila e 500 euro). Si tratta di una competizione che spinge verso l’alto e non verso il basso come accade nel nostro caso.   Credo che l’esistenza di una vera strategia aziendale permetta una migliore organizzazione del lavoro senza autoritarismo. Quando manca la strategia si arriva all’imposizione dall’alto».
 
Eppure il modello di produzione Ergo Uas adottato dalla Fiat nei suoi stabilimenti viene ritenuto da alcuni esperti come una modalità partecipativa, diversa dal tradizionale sistema gerarchico di stile sabaudo.
«Noi lo abbiamo studiato con valenti ricercatori a livello universitario che hanno prodotto una pubblicazione da titolo emblematico «Nuova Panda, schiavi in mano».  Io stesso ho contribuito alla redazione di un paragrafo. In pratica, mentre in Polonia per poter guadagnare 76 euro a macchina si dispongono di più linee di produzione e diversi modelli ( Ford Ka, il vecchio modello della Panda, la 500 e l’Ypsilon, con ritmi, reparti e cadenze diverse). Da noi, per raggiungere le 1050 vetture al giorno e rendere profittevole lo stabilimento, con un solo modello su di un’unica catena, la cadenza deve raggiungere il minuto, con i secondi contati per ogni operazione. Vuol dire che non ci si può permettere neanche uno stranuto. È in tale contesto che va inteso l’accordo imposto dall’azienda che ha tolto 10 minuti di pausa e spostato la pausa a fine turno con l’eventualità di occuparla con lo straordinario. I tre operai di Melfi licenziati ingiustamente e perciò reintegrati dal giudice, avevano contestato l’insopportabilità di ritmi del genere e sono stati trattati come sabotatori. Mi sembra evidente l’attacco alla democrazia e mi stupisco della mancanza di reazione e di sdegno».
 
Che segnali avete ricevuto dalla società esterna alla fabbrica?
«Di recente a Napoli abbiamo avuto una manifestazione nel palazzo municipale con oltre cento esponenti del mondo del volontariato e dell’impegno civile, da Libera al coordinamento delle comunità d’accoglienza, che hanno sottoscritto la tessera onoraria della Fiom come inizio della campagna nazionale lanciata da “Fics”, Federazione internazionale Città solidale,  per l’applicazione degli articoli 2 e 3 della Costituzione. Riceviamo molti messaggi di solidarietà, anche da operai che sono rientrati e non ce la fanno a reggere i ritmi e la gestione autoritaria della produzione. Ma è chiaro che senza un punto di svolta la situazione è destinata a peggiorare con l’esplosione di tutte le contraddizioni che ho evidenziato». 
 
Di fronte ad una tale prospettiva come si pone?
«Sono da sempre per una scelta non violenta di tipo gandhiana, che vuol dire riconoscere il conflitto, non fine a se stesso, e agire con il metodo della disobbedienza civile proprio per far rispettare la giustizia e i valori costituzionali. Posso dire che è una scelta condivisa dai miei compagni e da tutta la Fiom. Bisogna arginare la deriva violenta che è figlia della disperazione perché l’esito finale di tali dinamiche, come già accaduto nella storia, è una svolta autoritaria nella società. Per questo il mio impegno nella Federazione internazionale Città Sociale vuole proprio esprimere la possibilità di avere un diverso orizzonte di senso, uno sguardo di speranza. E lo dico come padre. Non vorrei dire ai miei figli che non è possibile credere in un mondo giusto e perciò decidere di sottomettermi o prendere la via dell’emigrazione».  

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