Ucraina, operatori di pace in marcia

Cosa fare davanti alla guerra in Ucraina? Intervista a Rosa Siciliano di Mosaico di pace, rivista di Pax Christi fondata da don Tonino Bello che nel 1992 promosse una marcia di 500 persone disarmate che raggiunse la città assediata di Sarajevo. Le ragioni di una nuova iniziativa in corso per ripetere quel gesto di pace dei popoli sul confine ucraino
Ucraina (AP Photo/Vadim Ghirda, File)

Con la guerra in Ucraina si sperimenta, davanti al dolore delle vittime, un senso di smarrimento davanti al dominio della logica delle armi che pare imporsi come soluzione e non come causa della tragedia in corso.

Cosa fanno le tante e diverse componenti del movimento della pace? Una delle figure emblematiche di questa realtà, di solito ignorata dai media, continua ad essere, a quasi 30 anni dalla sua scomparsa, don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente del movimento cattolico Pax Christi. Fu lui l’ispiratore di una marcia della pace di nonviolenti di diverse nazioni che nel 1992 raggiunse la città bosniaca di Sarajevo sotto assedio da mesi in una guerra feroce che dimostrò la fine dell’illusione di un mondo pacificato dopo il crollo del blocco sovietico.

 Con lo sguardo rivolto a quella vicenda e le domande urgenti di questo 2022 abbiamo perciò intervistato Rosa Siciliano, direttore editoriale della rivista Mosaico di Pace fondata da Tonino Bello ed espressione di Pax Christi.

 Quale fu il senso della marcia dei pacifisti disarmati nella Sarajevo assediata?
La Marcia di Sarajevo del 1992 è stato il “capitolo” più intenso dell’esperienza di Pax Christi di quegli anni e forse anche della storia recente del pacifismo, non solo cattolico, perché ha segnato un passo in avanti nella costruzione della pace.

Siamo chiamati ad essere costruttori e artigiani di pace, non solo sognatori. La pace – ci dice don Tonino – non è solo un’utopia, è scegliere di stare dalla parte dei poveri e delle vittime.

È scegliere la nonviolenza e il dialogo come vie non privilegiate ma le uniche possibili per risolvere i conflitti. Con l’esperienza di Sarajevo, la nonviolenza-stile di vita si candida a proposta politica.

La cultura della nonviolenza deve generare politiche nuove coerenti con il sogno di una pace disarmata.

Cosa avvenne in concreto?
La sera dell’11 dicembre 1992, don Tonino (già malato di cancro, morirà poi nell’aprile 1993) con 500 pacifisti – tra cui anche personalità del mondo dell’informazione, della politica, della Chiesa – arrivarono a Sarajevo, “a fari spenti”, per esprimere alle vittime vicinanza e solidarietà. Per dimostrare che l’interposizione nonviolenta è uno strumento di tregua possibile. Perché dove non era stato capace di arrivare l’Onu, lo aveva fatto quella strana carovana di sognatori: «è stata una specie di Onu rovesciata. Qui non è arrivata l’Onu dei potenti, ma l’Onu della base, dei poveri. – scrive don Tonino – […] Io penso che queste forme di utopia dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi e terra nuova. Io penso che noi dobbiamo puntare tutto su questo».

Quell’ “armata brancaleone”, come l’ha simpaticamente definita don Tonino nel “Diario da Sarajevo” raccolto da Gianfranco Bettin, ha richiamato l’attenzione pubblica.

Che effetti ha prodotto?
Ha silenziosamente gridato all’Onu il suo fallimento e ha rivendicato il protagonismo del popolo, della gente comune. Ha indicato la strada della nonviolenza. Non è stato facile andare a Sarajevo. Don Tonino si poneva le stesse domande che ci facciamo noi oggi: «È giusto mettere a rischio la vita di 500 persone in condizioni così infime? …Serve a qualcosa giocare agli eroi?».

È servito, dunque? Secondo me, sì. Non certo a fermare la guerra, ma a porre un segno di solidarietà e di speranza: la nonviolenza assoluta e la difesa popolare nonviolenta sono il futuro. Vanno studiate e trasformate in proposte politiche praticabili.

Credo però che la sintesi più alta della marcia di Sarajevo sia contenuta nelle parole di don Tonino: «Poi rimango solo, e sento per la prima volta una gran voglia di piangere. […] Attecchirà davvero la semente della nonviolenza? Sarà davvero questa la strategia di domani? È possibile cambiare il mondo con i gesti semplici dei disarmati? È davvero possibile che, quando le istituzioni non si muovono, il popolo si possa organizzare per conto suo e collocare spine nel fianco di chi gestisce il potere? Fino a quando questa cultura della nonviolenza rimarrà subalterna? […] Ma in questa guerra allucinante chi ha veramente torto e chi ha ragione? E qual è il tasso delle nostre colpe di esportatori di armi in questa delirante barbarie che si consuma sul popolo della Bosnia? Sono troppo stanco per rispondere stasera. Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza. Le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono».

È possibile oggi promuovere una simile iniziativa? O cosa altro è possibile fare a livello nazionale e internazionale?

È possibile, certo. Partendo dal chiedere in ogni sede possibile negoziati. È possibile se crediamo che la pace non può essere affidata alle armi. Noi credenti dobbiamo dare forza alle parole di papa Francesco: “Nessuna guerra è giusta”. Dobbiamo fare nostra la sua denuncia alle armi perché sono “uno scandalo”! Dobbiamo invocare la forza del diritto internazionale, dell’Onu, dei Caschi Blu, del peacekeeping e peacebuilding, della diplomazia. Ci spaventa l’arrendevolezza – per non dire il fallimento – dell’Onu di oggi, vittima di norme che di fatto blindano la sua possibilità di agire. Premesso questo, si sta preparando proprio in questi giorni una delegazione che si recherà ai confini dell’Ucraina, in Polonia, e vi aderiamo anche noi, con alcuni rappresentanti di Pax Christi e di Mosaico di pace. “Stop the war! Facciamo la pace!”: si metteranno in cammino referenti di associazioni, parlamentari, esponenti della Chiesa, per tendere la mano alle vittime della guerra, per portare in Italia alcune persone fragili, incapaci di fuggire, per chiedere un immediato “cessate il fuoco” e per invocare la forza della mediazione politica. Operatori di pace in marcia: “A quell’Onu dei poveri, che scivola nel silenzio nel cuore della guerra, sembra che il cielo voglia affidare un messaggio: che la pace va osata”. E noi vogliamo osarla questa pace, quella che va a braccetto con la giustizia, con il disarmo, con la “Politica” – quella bella, al servizio della comunità e dei poveri. La pace da sola, senza giustizia, senza nonviolenza, non va lontano.

 

È notevole come iniziativa di chi espone in questo modo personalmente ma bisogna rispondere anche a chi obietta e dice: «Non è ipocrita chiedere agli ucraini di adottare modelli di difesa popolare nonviolenta?».
Chiedere che una popolazione inerme, sotto i bombardamenti, adotti una difesa nonviolenta, sarebbe infantile se non addirittura paradossale. La pace non può essere costruita dall’oggi al domani, né probabilmente la si può mettere in piedi in guerra, come se avessimo una bacchetta magica. La situazione è molto complessa e sarebbe bene che sia data una seria informazione su tutte le ragioni di questa guerra, sugli interessi, sui capitoli pregressi del conflitto ucraino, sulle pressioni della Nato, sulla deterrenza militare… Quello che si chiede oggi non è agli ucraini. È all’Onu.

Cosa chiedete di preciso alle Nazioni Unite?
La necessità di riprendere il proprio ruolo di organizzazione super partes di mediazione politica e di intervento con i Caschi Blu. È ai governi che chiediamo di esperire ogni tentativo diplomatico possibile; a Putin di cessare il fuoco. Ai nostri politici chiediamo di investire, per prevenire future guerre, nella difesa non armata, nella preparazione di un adeguato piano di peacekeeping, di non investire così tanto in armamenti. Le nostre armi sono state inviate, sino a ieri, anche alla Russia. Altro che pace! E poi ci sarebbe il capitolo Nato e la nostra sudditanza ad essa. Ma rinvio ad altra occasione.

Secondo il sentire comune è lecito fornire strumenti di difesa a chi viene aggredito. I caccia bombardieri servono a proteggere le scuole afferma il sotto segretario alla Difesa Giorgio Mulè. Quali sono le ragioni ideali e pratiche che sono alla base dell’opposizione all’invio di armi in Ucraina?
Le armi porteranno altra distruzione e altre vittime. Non si può pensare di raggiungere il cessate il fuoco con il riarmo sino ai denti. Questo condurrà solo a un’escalation del conflitto. E che ne è poi dell’art. 11? Ci pensarono bene i nostri padri costituenti prima di scegliere quel sostantivo così ricercato: ripudio! Perché erano preoccupati che l’Europa non tornasse in guerra. E oggi, al di là della difesa legittima, un riarmo conduce inevitabilmente a una guerra peggiore. E, con le bombe nucleari, il rischio è altissimo. Bombe – forse non tutti lo sanno – che sono purtroppo anche in Italia. La nonviolenza assoluta e la difesa popolare nonviolenta sono i germi che “vorremmo seminare su questa terra”, come ci suggerisce don Tonino: e noi invece che facciamo? Decidiamo di inviare armi in Ucraina, di secretare ogni informazione in merito, e, come se non bastasse, di approvare un ordine del giorno per aumentare sino al 2 % le nostre spese militari! È così che vogliamo costruire la pace? Quale difesa nonviolenta potrà mai essere attuata senza risorse e senza progettualità politica? Dunque, val pena credere in queste nuove, piccole “armate brancaleone”, le uniche oggi capaci di osare la pace.

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