Le notizie che giungono dalla Seconda guerra del Donbass – la prima è stata quella del 2014-2022 − sono al solito ambivalenti e non sempre facili da decifrare. Sui cieli, la “guerra sporca” dei droni – la vera novità bellica di questo conflitto − infierisce sia sulla capitale ucraina che sulle infrastrutture energetiche e militari russe, anche se la superiorità di Mosca è ancora manifesta in campo missilistico.
Sul campo, anche Kyiv ammette problemi militari non secondari, in particolare attorno alle città di Pokrovsk, nell’oblast di Donetsk, snodo logistico cruciale, nel settore a ovest di Donetsk, a Marinka, Avdiivka e Vuhledar, mentre aspri combattimenti hanno luogo pure nel settore di Časiv Jar. L’avanzata russa pare inarrestabile, anche se molto lenta, e a costo di migliaia di morti non solo in campo ucraino, ma ancor più in quello degli attaccanti.
Il fatto è che si calcola che i soldati russi schierati in quei quadranti siano il doppio di quelli ucraini. Questo è il fattore determinante sul fronte del Donbass, secondo i migliori osservatori: i numeri sono spropositati dal lato russo, mentre sul fronte ucraino la fatica, dopo due anni di guerra di trincea, si fa sentire, anche perché i ricambi umani sono molto più scarsi che sul fronte russo. Una semplice questione numerica, insomma.
C’è poi da considerare il considerevole rallentamento – nonostante i proclami − delle forniture di armi a Kyiv da parte dei Paesi Nato e dell’Unione Europea, in particolare per la posizione sempre ambigua del presidente statunitense, che è più interessato alla questione mediorientale che alla “guerra europea”, che apre di continuo nuovi fronti, come ora in Venezuela, fronti che succhiano risorse militari e logistiche, così come fa il fronte sempre caldo di Taiwan e del Mar cinese meridionale.
E poi c’è il fronte sempre in movimento dei rapporti di Trump con Putin, Xi e anche Modi, coi quali The Donald sembra voler sempre interloquire: sono i più potenti del mondo, in fondo i soli coi quali valga la pena di trattare, secondo Trump, mentre i “piccoli”, compresi gli europei, vengono da lui trattati con disprezzo, se non condiscendenza. I grandi, però, sono ossi duri, hanno ai loro archi molte più frecce che i piccoli, e nei fatti con questi personaggi Washington si trova molto spesso a dover fare marcia indietro, con danni di immagine considerevoli.
Per Zelensky, inoltre, sta riaprendosi il fronte interno, in particolare per i ripetuti episodi di corruzione che sfiorano ormai il suo palazzo presidenziale. In questo campo sono sicuramente in gioco i vari servizi segreti che operano nella regione. E c’è pure la questione delle elezioni che prima o poi dovranno essere tenute in Ucraina, e il cui esito è più che incerto.
Cosa aspettarsi, allora? La strategia putiniana di dar l’impressione di essere aperti a soluzioni negoziali ma di tirare per le lunghe, finché Kyiv dovrà essere costretta a cedere il Donbass, è evidentissima, e anche Trump sembra esserci caduto in pieno. Solo Putin deciderà quando il terreno conquistato sarà sufficiente a qualificarlo come il vincitore assoluto della guerra. Questo è lo scenario più probabile, che non vuol essere udito in Ucraina, ma che si delinea come il più attendibile, a meno che la feroce resistenza ucraina o nuove eventuali forniture di armi da parte di Washington non entrino in gioco, in particolare nei cieli ucraini.
Viene da chiedersi – anzi da chiedersi per l’ennesima volta − se le due guerre del Donbass fossero assolutamente necessarie, quando ormai si parla di un milione di morti.