Tutta l’energia sulla scena

Si è ritrovato a fare l’attore non per una scelta consapevole. Né per una passione folgorante. Ma per un bisogno di indipendenza. All’età di sedici anni, infatti, voleva andare via da casa: Era la mia esigenza primaria – racconta -. Siamo quattro fratelli e all’epoca reclamavo un mio spazio in quanto dormivamo in tre in una stanza. Da ragazzino frequentavo la parrocchia di San Pancrazio. C’era un missionario che per me è stato una figura paterna. Aveva creato una scuola di recitazione, un campetto di calcio, uno di basket. Andavo là e questo mi permetteva di evadere da casa. Negli anni Settanta studiavo e contemporaneamente facevo teatro durante l’Estate romana per guadagnare qualche soldo. Sono entrato poi nella cerchia dei piccoli teatri alternativi; e infine ho voluto fare l’esame all’Accademia d’arte drammatica, ma non mi hanno accettato. Ci ho riprovato l’anno successivo ed è andata bene. Massimo Popolizio non ha bisogno di presentazioni, ma si può dire in sintesi che oggi, all’età di 43 anni e da venti sul grande palcoscenico, è tra i migliori e più attivi protagonisti della nostra scena teatrale. Ha lavorato coi maggiori registi italiani fra cui Luca Ronconi, interprete di quasi tutti i suoi spettacoli degli ultimi anni. Inevitabile cominciare parlando di lui. Come consideri Ronconi e cosa ti ha insegnato? È tuttora il mio maestro. Da lui ho imparato ad affrontare la visione della parola scritta, a pormi degli interrogativi su quello che leggo, su come trasportare la parola in scena, quali riferimenti avere, come stimolare la fantasia. Il suo modo di lavorare è molto immaginifico. La differenza fra lui ed altri è che da una parte ci sono dei bravi registi, e dall’altra c’è un fuoriclasse dell’invenzione: uno con qualcosa di più. Ultimamente ti abbiamo visto in impegnative letture teatrali, come l’Eneide, con un grande successo di pubblico. Questo interesse per i versi declamati, che tu definisci un’interpretazione al leggìo, da cosa nasce? Credo da una voglia di stare insieme, di riconoscersi per qualche cosa che accomuni tutti. Oggi col disgregarsi e parcellizzarsi dell’impegno personale si sente ancor di più il bisogno di stare insieme. Ciò richiede però allo spettatore il porsi in attenzione per godere di qualcosa di bello che l’interprete, con la sua capacità fabulatoria di penetrare e lanciare dei messaggi che arrivino a segno, deve saper restituire in immagini, voci e figure. Hai interpretato molti testi classici, ma anche di autori contemporanei, come un recente Pinter. Come vedi la drammaturgia contemporanea? Credo che per essere tale non debba necessariamente essere di attualità, o parlare di quotidianità. Penso a Le baccanti di Euripide (allestimento del Piccolo di Milano, n.d.r.): è un testo molto attuale, perché parla di noi, con molta forza. Oggi invece si scrive condizionati da esigenze di messa in scena con pochi soldi e pochi personaggi, in un luogo domestico. Non sono i tempi e i luoghi che fanno la contemporaneità. Per esempio, Copenaghen di Michael Frayn, del ’95, è una scrittura contemporanea, che non parla di temi di coppia, o di crisi generazionale, ma di scienza, ponendo degli interrogativi morali, etici. Teatralmente parlando, riporta il furore scientifico della scoperta a un furore recitativo . Qual è la responsabilità dell’attore? Di essere onesti. E non cercare di ingannare il pubblico. È sempre un puntare in alto, il più possibile, perché solo così ci può essere una risposta infiammata dello spettatore. Lavori spesso con compagnie numerose. Le prediligi a quelle più piccole? Credo molto nelle grosse compagnie: danno il senso che il teatro è una cosa molto professionale, qualcosa che si fa e si crea insieme. L’apertura a gente nuova che arriva in compagnia è rivitalizzante anche per il rapporto che si instaura fra gli attori. Rappresenta una crescita. C’è un senso comune del viaggio verso una nuova avventura. Hai fatto anche cinema e televisione… Poco di entrambi. Per fare l’uno o l’altro devi essere molto libero. E io non lo sono. Sono mezzi importanti, e c’è gente specializzata a farli. Quando ho rappresentato l’Eneide a Roma, è uscito un bell’articolo su la Repubblica dove, tra il resto, si diceva che ero bravissimo e che la gente era stupita di questo attore, sconosciuto però al 70 per cento del pubblico. Il motivo è che non passo attraverso i canali televisivi. Se uno è invidioso questo ti può portare alla depressione; altrimenti ti fa provare la felicità di essere più libero, perché posso scegliere e fare più cose senza la pressione dei grandi numeri. Tra l’altro molti attori di televisione vengono dalla scena… Però, la dignità che il teatro conferisce agli attori, la tv non la restituisce nello stesso modo. La differenza è che il teatro è soprattutto un lavoro artigianale, che nasce da rapporti umani precisi e specifici intorno ad un testo. Dammi una definizione di attore… Non è facile. Gli attori sono persone perbene, ma indifese. Forse dovrebbero essere più sicure. Oggi in Italia, e altrove, soffrono di depressione a causa anche della mancanza di senso nel sistema produttivo e organizzativo che non dà dignità al nostro lavoro. Ad una certa età si è tagliati fuori. Sei costretto, per lavorare, a fare delle tournée anche a 70 anni, cambiare sempre alberghi, cosa che ad alcuni piace; ma, se la paga non te lo permette, diventi un miserabile. Io mi ritengo fortunato perché lavoro tanto e guadagno bene. Ma per la maggior parte non è così. Di cosa ha bisogno il teatro oggi: di attori, di autori, di registi? Ha bisogno di meno attori, di meno autori, di meno registi. Ce ne sono troppi. Nel senso che per il fatto che c’è posto per tutti, si è abbassato il livello della qualità. Tutti sappiamo che esiste una serie A, B e C, ma pubblicamente non si può dire che c’è qualcuno che merita e altri no. Cosa pensi del pubblico di oggi? Forse il teatro oggi ha bisogno di vedere nel pubblico un valore alto. Cioè, che innalzando il livello di attenzione e di preparazione, innalzi la qualità di quello che fai e migliori anche quella del pubblico. Ed esso ti è grato. Il talento è frutto di studio, di lavoro… Il talento è una cosa che c’è o non c’è. Non si impara. È il lavoro dell’atto- re che bisogna guadagnarsi. Riesci se te lo sudi. Oggi assistiamo ad una voglia sfrenata di esporsi, esibirsi: da come ci si veste a come si parla. L’attore è uno che invece dovrebbe esibirsi esclusivamente in scena, cioè portare la sua energia in quel quadrato: nella vita risparmiare e nella scena dare. Bisogna conservare sempre dentro di sé una nicchia, un posto dove andarsi a cercare, dove attingere. E curare questo giardino interiore. Curare una propria sensibilità, la capacità di porsi in tensione verso le cose. Che rapporto hai coi tuoi colleghi? Con alcuni sono molto amico. Sin da ragazzo, avendo subito ottenuto delle parti da protagonista, sono stato invidiato, e ciò ha creato uno spartiacque fra le persone che mi volevano bene e quelle che invece mi invidiavano. Sul lavoro con molti ho anche litigato, non personalmente ma per una specie di ansia, una richiesta di rapidità che non teneva conto delle difficoltà dei tempi degli altri. Con l’età ho imparato che ci vuole molta più pazienza. Io sono passato – non so se vuoi scriverlo – attraverso un forte dolore: sono caduto in una depressione, sono stato malissimo. Ma questo mi ha fatto compiere un giro di boa. Mi sono curato. Il mio lavoro è diventato ancora più importante di prima, però oggi lo vivo diversamente, amando il significato vitale e profondo che ha per me. Sono uno che lavora tutti i giorni e ogni giorno riempio un tassello nuovo. Il teatro quindi è tutto, o c’è altro? È la cosa principale. Di altro c’è che ho una fidanzata, una casa in campagna, c’è che mi piacciono gli alberi, la terra. A differenza di quando avevo 35 anni, oggi mi sento più forte perché cerco sempre più di centrare l’obiettivo, e nello stesso tempo mi accorgo di cose che prima non vedevo. Certo, nella vita sono altre le cose più importanti. Del teatro però non puoi fare a meno, come confronto fra gli uomini. Il teatro lo si è sempre fatto anche in tempi di guerra, durante le pestilenze: ci sarà un motivo. E poi oggi vedo che è cambiato rispetto a dieci anni fa, il pubblico è molto più attento, più curioso, sa scegliere, non lo inganni. Cos’è l’umiltà per un attore? È fondamentale, specialmente nei confronti del testo, e verso alcuni colleghi, nel riconoscere la loro grandezza e capacità. Penso che l’umiltà serva non solo a teatro ma nella vita. Nella tua carriera hai ricevuto molti premi e riconoscimenti. Cosa si prova? I premi non li ritengo importanti, anche se sono felice di averli ricevuti. Però non sono il motore. Il motore è una specie di utopia: l’alimentarsi di qualcosa da dover realizzare, che non sai ancora cosa sia. Però la possibilità di poter stare insieme ad altri coi quali recitare bene e sempre meglio: ecco, questa specie di furore che provo è il motore. Io non so fare altro che l’attore. A me pare di esserci riuscito bene e continuo a farlo. Con professionalità. Se io tutte le sere, da copione, mi devo mettere un vestito che non è mio, che spesso non ho deciso, tanto vale che lo faccia bene, mettendoci tutta la forza, la voglia, la passione .

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