Trent’anni dopo

Il taxi sale veloce su per le colline intorno a Torino. Guardo dai finestrini la città piovosa, pensando all’incontro con il mio vecchio professore delle medie. Sono oltre trent’anni che non ci vediamo. È vero che da tempo ci scambiamo gli auguri a Natale e a Pasqua; ci siamo anche sentiti per telefono, qualche mese addietro. “Quando vieni, fermati qui da noi per qualche giorno”, insisteva. Non mi sono deciso tanto facilmente. Il cuore si impazientiva dalla voglia di rivederlo, ma mi frenava un certo timore: come starà, non lo disturberò troppo? E poi la nostalgia, l’andare indietro nel tempo: gioia e sofferenza mescolate insieme… Infine, la decisione: una semplice variazione sull’itinerario di un viaggio di lavoro, ed eccomi in una grigia – e ben ordinata – Torino. Arrivo alla residenza dove vive il professor Teodoro – un religioso – da alcuni anni, da quando ha lasciato l’insegnamento attivo. Vuol essere una sorpresa, la mia: infatti non sa nulla del mio arrivo… Piove. Entro in portineria e chiedo del professore. C’è. Mi accompagnano al terzo piano. Esco dall’ascensore e c’è lui che mi aspetta. Non è cambiato: ha il volto fresco di un cinquantenne, nemmeno una macchia o una ruga, due occhi splendidi; veste con elegante sobrietà. Solo il bastone a cui si appoggia tradisce che a settembre compirà novant’anni. Ci si abbraccia; il professore non riesce a nascondere la gioia: io mi risento “a casa”. Entriamo nel suo piccolo appartamento: me lo mostra, stanza per stanza: ordinato, essenziale, come è lui. Ci si siede; ed è l’intrecciarsi di una conversazione immediata, come stessimo da giorni insieme: ricordi, ma soprattutto idee, scambi culturali, esperienze di vita. Il professore si svela, senza remore: ha l’anima di un ragazzo, desideroso ancora di imparare e di conoscere. “Sai – dice con entusiasmo – ho appena finito di imparare il russo”. Sobbalzo. Mi mostra i foglietti degli appunti su cui ha scritto le fatiche grammaticali e di sintassi: “Ho sempre avuto la passione per le lingue” (questa non la sapevo, ndr), commenta. Così mi parla dei vari usi del termine tedesco der. Io non ho troppo da dire, preferisco ascoltare: mi fa così bene! Il professore racconta di sé, dei suoi incontri, degli ex allievi che periodicamente vengono a festeggiarlo. Rivela particolari di episodi inediti: “Io ho sempre dato speranza ai ragazzi. Mi prendevo quelli che i colleghi giudicavano “irrecuperabili”, li preparavo e poi venivano promossi: tutti”. Scopro che quest’uomo non solo ha voluto bene a me, ma a centinaia di ragazzi, e che in fondo è l’amore che ha mosso tutta la sua attività educativa. Una telefonata interrompe la conversazione. È una signora – mi accenna delicatamente – preoccupatissima per la famiglia. “Si curi anche lei la salute – lo sento rispondere – perché se sta bene può giovare ai suoi familiari ancora di più”; e poi la invita a pregare. Ritorna improvvisa la dimensione “verticale” della sua vita che miattirava, senza rendermene conto, da ragazzino. Il professore era un religioso non clericale: equilibrato, sereno, sorridente; un insegnante formidabile per cultura, chiarezza, capacità di sintesi, vastità di interessi. Musicista e uomo di preghiera, come lo osservavo molte volte. Abbassata la cornetta, quasi sovrappensiero, esce in uno dei suoi fulminanti (per me) accenni di saggezza: “Adesso che compio novant’anni, mi accorgo, riandando indietro alle tappe della vita, che non sono stato io a scegliere il Signore, ma lui ha scelto me”. È detto con solennità tranquilla, con la naturalezza di una convinzione interna: mi regala una grande pace. Poi, mi guarda fisso; ricorda che da ragazzino “bevevo le lezioni” e quando gli confido che in verità ho sempre, in qualche modo, continuato a studiare, per un bisogno intimo, senza sforzo, è felice. “Anch’io faccio la stessa cosa”: e mi mostra decine di quaderni, vergati con la sua grafia sottile e aristocratica, densi di appunti, riflessioni, fatti: una vita, insomma. Il colloquio è vivace; bussano alla porta: è l’infermiera che però, vista la mia presenza, passerà più tardi. Dei suoi acciacchi – forse ne avrà qualcuno – il professore non fa cenno: non sono importanti! Ribussano: è il responsabile del centro. Il professore mi presenta, con orgoglio, come un ex allievo, giornalista di Città nuova, a cui lui è abbonato da anni e per la quale nutre una profonda stima. Rimasti soli, mi chiede notizie di Chiara Lubich, è ammirato della sua vitalità e della sua ricchezza spirituale. E, in un balzo temporale, mi parla di mia madre, episodi che non conoscevo. Il tempo scorre, e non vorrei affaticarlo: ma il professore è radioso, lo sguardo è sempre più splendente. Non sa cosa regalarmi: alla fine raccoglie una penna, una rivista dove si parla di educazione scolastica e me le dona. A questo punto, approfitto per rivelargli il vero motivo della mia visita: un debito di gratitudine che da anni devo saldare con lui. “Se lei non ci fosse stato, chissà se sarei andato avanti negli studi, se avrei imparato qualcosa non solo dai libri ma della vita”. E pure, credo che il mio vecchio insegnante sia in parte responsabile, senza volerlo, della mia decisione di vivere più profondamente il cristianesimo, anni dopo, quando non ero più un ragazzo. E lui, semplicemente: “Beh, credo che tutti i ragazzi cerchino dei modelli nei loro insegnanti… Forse il Signore si serve anche di queste persone “. Un modo discreto, senza false modestie, per ammettere che sì, forse, lui c’entra nel mio cammino umano e spirituale. “Ritornerai, certo, ancora a trovarmi per qualche giorno”, fa con energia. Ed io lo prometto. Così mi elenca le bellezze culturali e artistiche della “sua” Torino. Ma è ora di partire. Mi accompagna – io gli sostengo il braccio – fino all’ascensore. Ci si abbraccia. La commozione vela ad entrambi lo sguardo. Ci rivedremo? “Professore, la ricordo tutti i giorni” gli ho soggiunto di sfuggita, sulla porta. E lui: “Anch’io faccio lo stesso”. Sono di nuovo infilato in un taxi. Mentre osservo Torino piovosa, mi rendo conto che questo incontro non è stato un revival del passato. Mi ha segnato, dentro. “Ormai io sono più di là che di qua”, aveva detto con una serenità che mi sbalordiva. “Sai – concludeva – io non penso più al passato, non ho nostalgie degli anni di lavoro, anzi suggerisco ai colleghi che hanno paura della pensione, di ritirarsi, per fare altre cose, una nuova vita”. Quella del presente, dove ho trovato che vive questo uomo mite, sapiente; e libero.

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