Tredici vite di Ron Howard, cooperare al bene senza confini

Il film del regista Ron Howard ci parla di un lavoro di squadra in nome dell'amore gratuito per il prossimo, per la difesa della vita umana in quanto tale. Il racconto dell’opera corale di salvataggio, avvenuto nel 2018, di dodici ragazzi di una squadra di calcio thailandese rimasti imprigionati in una enorme grotta durante la stagione dei monsoni.
Ron Howard Tredici vite foto Amazon prima

È la storia di una sinergia, quella raccontata in Tredici vite: il nuovo film del regista Ron Howard (Rush, A Beautiful Mind, A Cinderella man), distribuito (in tutto il mondo) direttamente sulla piattaforma Prime Video dal 5 agosto scorso.

È la storia di un remare insieme, ognuno con la propria forza, con la propria posizione, con la propria professionalità. È la ricostruzione (senza abuso di spettacolarizzazione) di una vicenda drammaticamente vera: quella di dodici adolescenti appartenenti a una squadra di calcio thailandese (e del loro giovane allenatore) che nel giugno del 2018 rimasero imprigionati in una enorme grotta (Tham Luang) durante la stagione dei monsoni.

Con il lavoro corale di tantissime persone («più di 5000 da 17 Paesi diversi», dice una didascalia alla fine del film) furono miracolosamente tratti in salvo dopo 18 lunghissimi giorni. La sintesi di Tredici vite – e anche il perché della sua utilità – sta nella frase che il governatore provinciale pronuncia dopo l’esito positivo delle operazioni: «Siete venuti qui da città vicine e da Paesi diversi di tutto il mondo. Avete dato il vostro tempo, la vostra competenza, qualcuno il suo raccolto di riso, senza chiedere nulla in cambio. So che lo avete fatto per una sola ragione: l’amore per i ragazzi».

Ci sono, nel film, i volontari che hanno lavorato per deviare i corsi d’acqua che avrebbero irrimediabilmente aggravato l’allagamento della grotta («250 milioni di litri», dice ancora la didascalia); ci sono i contadini (poi «risarciti dallo Stato», sempre stando alla didascalia) che hanno accettato lo scorrere di quel fiume d’acqua artificiale sulle loro terre coltivate.

C’è poi la popolazione che prega, ci sono i media che portano la notizia in tutto il mondo e ci sono, infine, i due sommozzatori inglesi Richard Stanton e John Volanthen (ottimamente interpretati da Viggo Mortensen e Colin Farrell), che sono, in qualche modo, i due “eroi” del film: i “frontmen” che insieme all’anestesista australiano Richard Harris (Joel Edgerton), uniscono energia fisica e brillantezza mentale per risolvere una situazione delicatissima.

Rischiano la vita senza pensare al proprio orticello lontano; si infilano tra i cunicoli subacquei strettissimi, ma sanno anche intuire prima degli altri le criticità e le possibili (rischiose) vie di uscita da quell’incubo. In questa classicità hollywoodiana, per certi versi inevitabile in un film di Ron Howard, il survival movie umanista dell’ex Richie Cunningham guadagna in sana tensione narrativa, ma paga una sorta di sottile prezzo ideologico politico, perché è come se lentamente si facesse spazio il tema della forza occidentale che soccorre i Paesi più fragili, e la cronaca si tinge sottilmente di propaganda e di un latente “autospot”.

Sensazioni, pensieri di fondo. Al netto di questo sbilanciamento tra star e seconde linee spinte verso il coro, tuttavia, il film ci parla di un lavoro di squadra in nome dell’amore gratuito per il prossimo, per la difesa della vita umana in quanto tale, e questo rende Tredici vite un film, oltreché coinvolgente e ben girato, portatore di un messaggio costruttivo prezioso; cooperare oltre gli interessi nazionali e personali per ottenere risultati collettivi difficili, insperati, grandiosi.

Da segnalare che la pellicola (della durata di 2 ore e venti minuti) è dedicata alla memoria di Saman Gunan, morto durante le operazioni di salvataggio, e del Navy seal Beirut Pakbara, morto per un’infezione del sangue contratta sempre durante il salvataggio.

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