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Tre cose da conoscere per capire il mondo

di Maurizio Simoncelli

- Fonte: Città Nuova

Mondo tra guerra e pace. Una mappa geopolitica accessibile a tutti. Cercare di capire origine e cause dei conflitti del nostro tempo, per non restare indifferenti. Un contributo dall’autore del libro “Terra di conquista (ambiente e risorse tra conflitti e alleanze)” Città Nuova

Mondo e geopolitica Saturday,AP Photo/Andreea Alexandru

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, per un quarantennio il confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica, tra Alleanza Atlantica e Patto di Varsavia ha dominato e condizionato i rapporti tra le nazioni, riportando tutto ad uno schieramento a favore o contro una delle parti in causa, democrazie borghesi contro regimi comunisti.

Implosione dell’Urss

Alla fine del XX secolo dapprima la distensione, poi l’implosione dell’URSS hanno portato a profondi cambiamenti che hanno fatto sperare nei cosiddetti “dividendi della pace”, speranza rapidamente persa a fronte dell’intensificarsi di guerre locali fondate su base etnica o religiosa, che andavano mutando gli equilibri ingessati dei decenni precedenti e ridisegnando il nostro planisfero, soprattutto nell’area europea. In particolare il conflitto nell’ex Jugoslavia appariva simboleggiare non solo questa nuova stagione, ma anche l’incapacità delle Nazioni Unite ad intervenire sia preventivamente sia successivamente (basta pensare amassacro di Srebrenica del 1995, al punto che si dovette attendere l’azione della NATO per mettere fine a questa feroce guerra civile, o alla tragedia del genocidio in Ruanda del 1994). Mentre si intensificarono in questi anni le azioni internazionali di peacekeeping (nonché  di peacebuilding e di peaceenforcement), si andò assistendo – in modo contraddittorio – anche ad una progressiva emarginazione politica del ruolo delle Nazioni Unite. Infatti furono istituite in ambito ONU, tra il 1989 e il 1994,  ben 20 operazioni, con un incremento numerico delle forze di pace da 11.000 a 75.000[1], ma ad esse se ne affiancarono nel tempo altre di diverse organizzazioni internazionali. Infatti, a questa fase espansiva dell’interventismo umanitario è succeduta una relativa contrazione, connessa a diffusi timori che esso (e la sua legittimazione a posteriori) potesse servire ad altri scopi non dichiarati (come nel caso della Libia)[2]. Attualmente vi sono 17 operazioni delle Nazioni Unite, 17 dell’OSCE – Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, 15 dell’Unione Europea, 5 dell’Organizzazione per l’Unità Africana, 2 della NATO ed altrettante dell’ECOWAS  – Economic Community of West African States (nonché una dell’OAS – Organization of American States, per lo più concentrate in Africa (31), in Europa (22), 12 nell’Asia e nel Pacifico, 10 nel Medio Oriente e 3 nel continente  americano[3].

Se il fenomeno storico del colonialismo  si era concluso nel periodo del secondo dopoguerra, il cosiddetto neocolonialismo, cioè la persistenza di un’influenza politica ed ancor più economica dei paesi più avanzati nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, si è dispiegato in un mondo sempre più interconnesso e globalizzato in particolare attraverso l’azione delle multinazionali. Queste ultime sono state (e lo sono tuttora) in grado di controllare e di gestire la produzione e il commercio mondiale in moltissimi settori, da quello energetico a quello minerale, da quello alimentare a quello idrico. Si pensi alle multinazionali agrotecniche come Monsanto, Du Pont, Basf, Bayer e al monopolio sui semi, alla Danone, Vivendi, Coca Cola e Nestlé nell’ambito delle acque minerali, alle cosiddette “sette sorelle” (in realtà le grandi aziende sono una trentina) in campo petrolifero, a De Beers, Alrosa (che da sole già controllano i due terzi del mercato), Rio Tinto e Dominion Diamond Corporation nel settore diamantifero, e così via.

Insieme alla competizione per la supremazia politica, militare ed economica, il fenomeno del land grabbing (cioè la pratica sempre più diffusa di acquisizione su larga scala di terreni agricoli – milioni di ettari – nei paesi in via di sviluppo per lo sviluppo di monocolture), nonché i cambiamenti climatici, il surriscaldamento della Terra, la desertificazione[4], stanno contribuendo a ridisegnare le economie, le società, le demografie, mentre crescenti masse migratorie si spostano drammaticamente sul nostro pianeta. E tutto questo innesca dinamiche e tensioni che sono sfociate e tuttora sfociano in conflitti di varia natura e intensità.

Geopolitica del caos

Non a caso già alla fine del XX secolo si parlava di geopolitica del caos[5], ad indicare da un lato l’assenza di punti di riferimenti e dall’altro l’azione unilaterale dei singoli stati alla ricerca della salvaguardia dei propri interessi immediati. Non è casuale infatti che si sono avviati in questo periodo interventi militari fondati su coalizioni a geometria variabile, cioè non basati sulle forze di un’alleanza prestabilita, ma organizzati di volta in volta da uno stato leader con diversi partner. Ne sono esempi l’intervento statunitense in Iraq nel 2003, quello occidentale in Libia nel 2011, quello nello Yemen nel 2015, eventi dai quali le Nazioni Unite rimangono sostanzialmente estranee, emarginate, impotenti.

L’interesse dei cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (USA, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna), forti anche del cosiddetto diritto di veto, non ha coinciso di fatto con quello della comunità internazionale, né tantomeno con quella della sicurezza e della pace mondiale. La mancanza di un’autonomia finanziaria, di proprie forze armate, di un’effettiva giurisdizione internazionale, nonché i pesanti condizionamenti politici pesano come un macigno su questa istituzione, che comunque rimane l’unica istanza legittima a livello internazionale a fronte di una situazione anarchica in cui vige la legge del più forte (o dei più forti), che pertanto si misurano e si confrontano appunto direttamente o indirettamente attraverso l’uso delle armi.

Basta guardare l’area mediorientale, da decenni afflitta da crisi e da tensioni, connesse proprio all’importanza economica e geopolitica della zona: un terzo circa della produzione mondiale di petrolio proviene da qui, mentre i chokepoint, cioè gli stretti marittimi, di Hormuz, tra l’Iran e l’Oman, a est-sud-est e di Bab el Mandeb (Golfo di Aden, Yemen) a sud-ovest della penisola arabica rappresentano dei punti strategici per il controllo del commercio petrolifero passante per il Golfo Persico/Arabico e per il Mar Rosso. Un loro eventuale blocco in seguito ad una crisi metterebbe in ginocchio l’economia mondiale: lo scontro Iran- Arabia Saudita va letto pertanto non semplicemente in chiave di antagonismo religioso sunniti/sciiti), ma anche e soprattutto nell’ambito di un confronto per una supremazia geopolitica quanto meno regionale[6].

Si può anche pensare anche alla cosiddetta guerra mondiale africana, che ha visto coinvolti la Repubblica Democratica del Congo e altri paesi come Ruanda, Uganda, Angola, Burundi, Zimbabwe e Namibia, scontro le cui radici affondano nella ricchezza del Congo stesso (rame, cobalto, oro, diamanti e coltan, colombite-tantalite minerale preziosissimo per cellulari, computer  e industria aerospaziale). L’instabilità del paese permane drammaticamente alta ancora oggi nelle regioni orientali e nordorientali, nonché nelle province del Kasai e del Lomami.

Spostandoci in America Latina o in Afghanistan la produzione e il commercio di droga rappresentano un altro tipo di economia, ufficialmente illegale, ma in grado di corrompere governi, forze armate, polizia, magistratura, condizionando economie e politiche, scatenando guerre e guerriglie, violenze ed ulteriori movimenti migratori. Per capirne le dimensioni finanziarie, secondo l’Unodc – United Nations Office on Drugs and Crime, pochi anni fa il mercato mondiale delle droghe veniva valutato intorno ai 262 miliardi di dollari.

Cina e Russia

In un quadro dominato dalla geopolitica del caos e da un progressivo spostamento dell’epicentro politico ed economico dall’Occidente all’Oriente, con la Cina che si avvia ad essere la prima economia del mondo, si registra una crescente tendenza a fare affidamento sullo strumento militare per rispondere alle multiformi sfide e alle numerose crisi del XXI secolo.

L’allargamento progressivo dell’Unione Europea verso est ha condotto ad una crisi senza precedenti con la Russia[7], portando di fatto allo smembramento dell’Ucraina con la Crimea annessa a Mosca e con aree come quelle del Donbass resesi autonome da Kiev. Mosca ha percepito questo espansione dell’UE come progressivo e minaccioso avvicinamento degli alleati NATO ai suoi confini: se Bruxelles in realtà non dispone ad oggi di una forza militare comunitaria efficace[8], essa viene comunque percepita nettamente come realtà filoatlantica.

La dislocazione di basi statunitensi antimissili Aegis in Polonia e in Romania, presentata per contrastare un ipotetico attacco missilistico iraniano, non ha convinto geograficamente Mosca, che ha avvertito questa iniziativa come una minaccia nei suoi confronti. L’assenza di dialogo e di trattative tra le due superpotenze in atto da diversi anni sta peggiorando il quadro dei rapporti, mentre le sanzioni da un lato e le esibizioni di forza dall’altro sembrano rappresentare l’unico modo di comunicare tra ambedue le parti.

È in questo quadro del XXI secolo che la conflittualità interstatale e intrastatale si va espandendo, non trovando forme sistemiche di controllo sul piano internazionale.

 

 

Estratto dal Dossier Disarmo (ed Città Nuova)

[1] http://www.unric.org/it/60-anni-di-peacekeeping-onu/17487

[2] Ugo Maria Gaudino, Ascesa e declino dell’interventismo umanitario, in “Sistema Informativo a Schede”, 12/2016, in http://www.archiviodisarmo.it/index.php/it/2013-05-08-17-44-50/sistema-informativo-a-schede-sis/sistema-a-schede/finish/275/4359

[3] La diffusione di tali tipi d’intervento ha portato l’ONU a proclamare il 29 maggio Giornata internazionale del peacekeeper. Vedi https://www.sipri.org/commentary/topical-backgrounder/2017/trends-multilateral-peace-operations-new-sipri-data

[4] Stime ottimistiche dell’ONU ipotizzano che nel 2050 circa 3 miliardi di persone potrebbero avere problemi di accesso all’acqua potabile. Di qui non è difficile immaginare conseguenti massicci spostamenti di popolazione su altre aree del nostro pianeta.

[5] Ignacio Ramonet, Geopolitica del caos, Asterios, 1998.

[6] E’ esemplare in tal senso la crisi tra l’Arabia Saudita e Qatar, che, pur ospitando una tra le più grandi basi militari statunitensi a al-Udeid (sede del comando delle forze aeree del Central Command) e partecipando alla coalizione a guida saudita impegnata nella guerra nello Yemen, viene accusato di sostenere il terrorismo islamico.

[7] Mosca, dopo un periodo di crisi connessa alla fine dell’URSS, ha iniziato a mostrare nuove autonome iniziative d’interventismo militare dapprima nell’area cecena nel 1999, poi successivamente in Georgia nel 1993 e più recentemente in Siria nel 2015.

[8] Nel dicembre 2016 comunque l’UE ha stanziato con Il Piano d’azione per la difesa europea 90 milioni di euro per il prossimo triennio e poi finanziamenti per un programma europeo di ricerca per la difesa del valore complessivo di 3,5 miliardi di euro per il periodo 2021-2027.

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