Tra passato e futuro

¦ Luciano Berio Sinfonia, Rossini Stabat Mater. Roma, Accademia Nazionale santa Cecilia. Aprire la stagione con Berio e Rossini, può apparire cosa sconcertante. Ma, a ben pensare, accoppiare un musicista post-classico ad uno classico è opera di pensiero intelligente. La musica è fatto vitale e prosegue nel tempo, e poi scoprire il cammino fatto e quello che continua, così come l’arte l’esprime, resta oggetto di riflessione giusta, non solo di appagamento estetico. La Sinfonia di Berio è una syn-phonia, cioè un suonare insieme di otto voci ed un’orchestra ricca che in cinque parti, vuole creare da un indistinto magma sonoro, in cui ogni strumento o voce esprime sé stesso, un nuovo insieme: da un dialogo che sembra provenire da tempi lontani si punta ad una unificazione che, nella musica novecentesca, tenta l’approccio cosmico. Quasi a volere, l’uomo, ri-creare l’universo. Berio vi immette citazioni musicali (lo Scherzo dalla Seconda Sinfonia di Mahler, ma pure echi beethoveniani, brahmsiani…) che si combinano rigenerandosi continuamente; fa sì che le voci (gli ottimi The Swingle Singers) suggeriscano e poi compongano il nome di Luther King, appena assassinato all’epoca della composizione del brano; cita brevissimi frammenti da Le cru et le cuit di Claude Lèvi-Strauss (primo tempo) o da L’Innommable di Samuel Beckett (terzo tempo). Così tutto il mondo occidentale, nella riflessione musicale di Berio è coinvolto verso un altro cosmo, razionale, terrestre, inquietante perché senza serenità, cerebrale. Eppure, lo sforzo della fantasia è immenso fino a dare la sensazione di travolgere la ragione. Il risultato è ambivalente: Berio, pur carico di ricordi e di intuizioni sembra restare prigioniero di un affascinante, quanto irrisolto, interrogativo. Ma è questa l’anima del nostro tempo. Da ciò il contrasto evidente, ma non duro, con lo Stabat rossiniano. Accusato spesso di teatralità, alterna pagine di mesta e sincera commozione, si direbbe mozartiana (l’Introduzione Stabat mater dolorosa), ad altre indubbiamente belcantistiche, che, apprezzate a suo tempo, oggi appaiono sconcertanti. Ma l’estetica rossiniana non punta ad estremizzare gli affetti, li sublima, incorniciandoli entro una euritmia di pause e di melodie, colorandoli con la raffinatezza dell’orchestra. L’opera, che inizia sommessamente tragica, si snoda con duetti e arie cantabili, si conclude con l’Amen vigoroso: Rossini nel dolore ha bisogno di proporzioni serene, di momenti di evasione: non superficiale, ma come esigenza di tranquillizzare lo spirito. Dopo una simile musica, infatti, non si esce sconvolti, ma in pace. E questa è vera grandezza. Antonio Pappano ha diretto con meravigliosa elasticità i due brani del concerto, assecondato da un’orchestra sempre più perfetta – i violini hanno recuperato il loro tipico suono italiano – e in sintonia col direttore, da un coro di prima grandezza e dal buon quartetto dei solisti nello Stabat, decretando la straordinaria risposta del pubblico. Mario Dal Bello

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