Tiziano ultimo atto

Se la vecchiaia è il tempo dove l’anima trema, perché le forze se ne vanno ma soprattutto perché la sensibilità è diventata iridescente come un fiamma che si consuma, essa è il tempo delle anime grandi. Se poi si tratta di artisti come Tiziano, gloriosamente forte fin dalla giovinezza, i suoi anni estremi diventano mese per mese, o meglio giorno per giorno, anni dove l’interiorità si esprime con assoluta libertà, staccata da ogni schema artistico, anzi dalla forma stessa dell’arte. La forma, ossia l’involucro esterno in cui si rivela il pensiero e l’immaginazione, viene dissolta. In Tiziano tutto è solo colore e luce. L’Annunciazione di San Salvador, a Venezia (circa 1560), cosa è se non l’esplosione del fattore luce racchiuso dentro la pennellata grumosa, carica. Che crea e dissolve al tempo stesso i corpi? Guardare l’angelo il cui profilo si perde nel colore, l’aria sulfurea in cui tutto vive e muore , e quel vaso di fiori che prima di Caravaggio riflette non solo ciò che esiste, il reale, ma ciò che lo anima, l’idea. Non c’è felicità nella gran tela: stupore, paura, invece. Maria sembra non vedere, sta per dire un sì al turbine che l’avvolge di una luminosità tale che la chiude nell’ombra. È erede, la tela veneziana, delle poesie, cioè dei soggetti mitici che il pittore invia da anni a Filippo II di Spagna, accanto a Cristi e Crocifissioni: il vecchio Tiziano nelle tele di questi anni ritorna nostalgicamente al natio Cadore, ai cieli azzurri solcati da nuvolaglie ora chiare ora incupite dalla tempesta, vede foreste sbattute dal vento, rocce franate, torrenti impetuosi, una umanità atterrita davanti ad una divinità implacabile. Dipinge a ditate furiose, ma i colpi al contrario costruiscono corpi dai contorni tremolanti, dalle luci ansiose. Cosa passa nella sua anima, in quale buio è precipitato proprio lui, che tutto ha vissuto, dal rinascimento dorato del primo Cinquecento alle violenze contemporanee delle guerre di religione? Se ne ha un sentore osservando da vicino alcune opere. La Maddalena penitente (Firenze, San Pietroburgo, Napoli, Roma) piange a dirotto lacrime vere tra cieli ventosi, paesaggi di boschi indistinti. L’Ecce Homo di Sibiu resta forte, ma al prezzo di un tormento che gli arrossa le guance. E l’Incoronazione di spine di Monaco, nel corridoio che lumi vaganti rischiarano di barbagli drammatici, vede confrontarsi l’innocenza dolente e la crudeltà dissennata. Tiziano vi innesta la novità del silenzio. È dei vecchi la scarsezza di parole, per dire l’essenziale. Il pittore lo fa esprimere dallo scorrere dei lumi fra le figure, rabbrividendo l’anima di commozione, perché quest’Incoronazione egli la sente propria: il suo non è forse un tempo di spine? È così pure nel Cristo portacroce dell’Ermitage, sul 1570. È un Cristo lagrimoso che ci guarda, fatto di chiazze bianche e sanguigne, mentre lui, il vecchissimo dalla barba canuta, gli sorregge la croce. La vita è nei suoi ultimi anni una croce. Onori, ricchezze, gli stanno diventando lontani, lui così attaccato alla cose. Pure, è ancora capace di gettare uno sguardo su ciò che lo circonda. Reagisce alla notte con violenza. Nel San Sebastiano dell’Ermitage ha la visione di un martire gridante dentro una atmosfera pulviscolare rossastra, visionaria, irrealistica: la figura palpita sotto i colori grondanti il furore di chi sente di avere poco tempo. Ne esce un eroe grandissimo che assorbe e supera il cosmo, simbolo di qualsiasi sofferenza per un ideale. Certo, Tiziano è pittore, non filosofo. Ma intuisce, conosce, sa. Pone istintivamente le domande fondamentali servendosi delle tele e del suo linguaggio, la pittura. Bella e terribile stagione sta vivendo il grande vecchio. Si ritrae, a Berlino, ancora forte, ossuto, pluridecorato, ci tiene all’immagine per i secoli: come ogni uomo, desidera che qualcosa, molto,di lui resti. Ha ancora sprazzi di energia. Si inventa una violentissima tela ora a Vienna, il Tarquinio e Lucrezia, una delle scene più crudeli dell’intera storia della pittura. È vecchissimo, ma che potenza. Ditate furiose, particolari irrisolti, la tela è un abbaglio di rosso e bianco, uno choc visivo della malvagità umana contro la fedeltà. Poi, è l’ora di partire. Nella paletta di Pieve di Cadore si ritrae diritto e deciso dietro le spalle del protettore san Tiziano. Nella incompiuta Pietà dei Frari veneziani diventa un ignudo Nicodemo che tiene teneramente fra le mani il Cristo morto. Si è abbandonato in qualcuno più grande di lui, finalmente, e tremante gli si raccomanda. L’anima è diventata un respiro, ogni forza se ne è andata. Le ditate sono più distese, i gialli e i bianchi e gli azzurri raddolciti. Chiunque contempli la tela avverte una quiete commossa. Tiziano, gran vecchio, non lotta più. Si abbandona. LA MOSTRA Curata da Lionello Puppi, la rassegna vede un centinaio di opere dai maggiori musei del mondo, fra cui l’inedito Ritratto di donna davanti ad un paesaggio con l’arcobaleno. Allestita da Mario Botta nel cortile di Palazzo Crepadona a Belluno, vede una sua logica continuazione a Pieve di Cadore nel Palazzo della Magnifica Comunità – una terra in cui il pittore curò sino alla morte interessi economici e decorazioni pittoriche che la mostra documenta. Tiziano ultimo atto, resta aperta fino al 6/1/08 (catalogo Skira).

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