Tifo da stadio sull’acqua
Si avvicina la data del 12 e 13 giugno. Strategie elettorali e necessità di un dibattito aperto sul bene comune
Se ne parla poco ma il prossimo giugno, a meno di un mese dalle elezioni amministrative di maggio e a scuole già chiuse, si apriranno le urne per tre referendum abrogativi di leggi già approvate dal Parlamento. Si tratta di uno dei pochi istituti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione.
In particolare, i due quesiti sulla gestione dell’acqua riguardano l’abrogazione dell’articolo 23 del decreto legge n. 112/2008 sulla «Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica» e l’abrogazione parziale dell’articolo 1 del Decreto legislativo n. 152/2006 a proposito della «Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito».
Dietro questa formulazione tecnica poco comprensibile, entrano in gioco aspetti concreti che determinano diverse strategie elettorali.
La logica dell’astensione. Un referendum si può vincere decidendo di non andare a votare. È un metodo legittimo: basta non far arrivare i votanti alla quota del 50 per cento più 1 e la consultazione sarà nulla, con conseguenti recriminazioni sulle inutili spese sostenute che si aggirerebbero, come ripetuto da più fonti, sui 300 milioni di euro.
L’abbinamento con le elezioni amministrative di maggio non è avvenuto per volontà del governo e voto delle Camere, anche se per un solo voto di scarto. In attesa di comprendere come il disastro atomico giapponese si rivelerà decisivo nel far confluire gli elettori all’appuntamento del 12 e 13 giugno – uno dei temi al voto è il ritorno alla produzione di energia nucleare in Italia –, il tema gestione dell’acqua presenta alcuni aspetti da comprendere bene.
Domande dai promotori del referendum. Emilio Molinari, presidente del Comitato italiano per il contratto mondiale dell’acqua, dopo la manifestazione del 26 marzo che ha radunato a Roma 300 mila persone, ha espresso con una lettera pubblica la perplessità per la mancanza di impegno di tanti soggetti sociali, del mondo della cultura e dello spettacolo. Del resto basterebbe partecipare ai «cortei per l’acqua pubblica» per rendersi conto della pochezza di mezzi e finanziamenti di cui godono i sostenitori del comitato «acqua bene comune».
Un’indifferenza sull’«agenda politica concreta» che Molinari non riesce a spiegarsi, anche perché l’iniziativa referendaria è stata sottoscritta da 1 milione e 400 mila di persone che «trasversalmente per una volta tanto non parlano con la voce della “pancia” e dell’egoismo, ma con quella degli interessi generali, collettivi».
Il comitato per il no. Una medesima solitudine, nel silenzio che favorisce l’astensione, l’avvertono anche i promotori del comitato Acqua libera tutti che sono decisamente per il no al referendum e quindi a favore del Decreto Ronchi sulla privatizzazione nella gestione delle risorse idriche. In maggioranza si tratta di giovani dirigenti del partito Democratico che hanno ricevuto ufficialmente il sostegno da circoli del pensiero liberista come l’Istituto Bruno Leoni o dichiaratamente di centro destra come Libertiamo.
Un approccio trasversale dunque, che ci tiene a distinguere tra il bene acqua, che rimane comunque pubblica, e la gestione della sua distribuzione che dovrebbe invece essere sottratta alle logiche di monopolio per aprirsi alla competizione di mercato.
Avviare il dibattito. La questione centrale diventa così non solo il decreto Ronchi, che ha disposto l’affidamento alle imprese private della gestione della risorsa idrica entro dicembre 2011, ma la norma del Codice dell’ambiente del 2006 che i referendari vogliono abrogare perché prevede che la tariffa del servizio idrico sia determinata tenendo conto non solo dei costi di gestione delle opere, ma anche «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito».
Su questo tema sensibile è intervenuta in maniera molto decisa, il 21 marzo, giornata mondiale dell’acqua, Federutility, associazione tra i gestori dei servizi pubblici locali che coprono finora il 76 per cento della fornitura di acqua: « In Italia il tema dell’acqua è accompagnato da un tifo da stadio. I numeri sono questi: servono oltre 60 miliardi di euro nei prossimi trent’anni se vogliamo evitare che il sistema collassi e che l’Unione europea applichi le multe per le quali ci ha già deferito».
Dati di fatto usati da Federutility per prendere posizione e sostenere la necessità di ricorrere ad un sistema di tariffazione che sia in grado di attirare i capitali di investimento di imprese e banche. Argomenti che potrebbero sollevare il dibattito sul punto nodale del referendum: quale tipo di gestione del bene pubblico? Con quale reale e trasparente partecipazione democratica?