Tempo di pagelle per le università italiane

La pubblicazione dei risultati della produttività scientifica degli atenei da parte dell'Anvur costituisce un’occasione concreta per riflettere sulle potenzialità e i limiti del nostro sistema accademico
politecnico

Sono sempre stupita durante le lauree in università nel vedere con quanta premura e apprensione partecipino alla dissertazione dei candidati i loro familiari. Genitori, fratelli, zii e nonni presenziano in religioso silenzio, spesso dovendo assistere a defatiganti sessioni che sembrano non terminare mai, palpitando per ogni virgola, per ogni cambio di voce. Il rituale della laurea sembra mantenere alto il proprio simbolismo nell’ambito familiare.

Per cui la domanda è d’obbligo: l’università italiana è in grado di offrire ai suoi studenti contenuti alti e competenze adeguate al mondo del lavoro che li attende o che dovranno inventarsi? E ancora: le università sono luoghi di eccellenza e innovazione o stanno diventando luoghi di istruzione di massa adagiati su rendite e consuetudini?

Molto deve ancora cambiare nella direzione di un ammodernamento e adeguamento dei percorsi universitari. Ma certamente il processo di valutazione, avviato anche nel nostro Paese ormai da qualche anno, costituisce una sfida necessaria perché le università italiane non si chiudano entro criteri di autoreferenzialità e imparino invece a misurarsi con altri contesti di ricerca. Qualità della ricerca e capacità di innovazione sono le dimensioni cruciali affinché l’università svolga bene il proprio ruolo culturale.

Un lavoro immane che ha avuto come esito la pubblicazione, la scorsa settimana, dei risultati della Valutazione della qualità della ricerca (Vqr) da parte dell’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca. Un processo che ha riguardato 95 università, 12 enti pubblici di ricerca vigilati dal Miur, 26 enti «volontari», prendendo in esame i risultati ottenuti in sette anni (tra il 2004 e il 2010) dai ricercatori italiani (articoli, libri, saggi, brevetti, manufatti, note a sentenza, traduzioni, software, banche dati, mostre e cartografie) e valutando la qualità, con metodi bibliografici e di valutazione critica, secondo standard internazionali.

Si tratta di una vera e propria pagella della produttività scientifica dei singoli atenei, che può diventare occasione per riflettere sui risultati del lavoro collettivo delle singole strutture, comparare la produttività scientifica delle singole università in relazione alle altre, evidenziare carenze e disfunzioni e capire quali incidenza abbia la ricerca italiana nei singoli campi a livello internazionale e, comparativamente, con le più grandi università del mondo.

I dati mettono in evidenza alcune singolarità e asimmetrie:

1.      una varietà di situazioni a nord, con punte di eccellenza ben distribuite, e una fatica diffusa a sud di rientrare nei canoni richiesti, salvo alcune eccellenze significative qua e là, che richiederanno una riflessione su come mitigare le differenze geografiche delle nostre università.

2.      una primato della ricerca nelle discipline scientifiche che ha, in media, una qualità più alta di quella nelle discipline umanistiche. Differenza che però potrebbe dipendere dalla rigidità dei metodi di valutazione e dalla difficoltà di valutare la qualità in aree disciplinari in cui gli elementi locali contano più degli elementi universali e il processo di internazionalizzazione è meno accentuato (pensiamo agli studi umanistici e artistici).

3.      la capacità delle piccole e media università di ottenere risultati di qualità più elevata del meglio delle grandi università, a riprova del fatto che non è il peso del singolo ateneo a contare, ma la capacità di legarsi ad una rete internazionale di qualità.

L’attuale governo si sta muovendo affinché questi risultati costituiscano la base di informazioni utile a decidere come ripartire i finanziamenti ministeriali alla ricerca secondo un criterio meritocratico e premiale: più un ateneo è virtuoso e ha un buon indicatore di produttività più sarà premiato. In particolare, la legge di conversione del decreto «del Fare» ha chiesto che dal 2014 almeno il 20 per cento del fondo per le università statali sia distribuito in base ai risultati di ogni ateneo, a patto che nessuna università perda più del 5 per cento rispetto all'anno prima, con un incremento progressivo di questo indice negli anni seguenti.

La strada del merito e del finanziamento premiale è stata così almeno imboccata. Saranno i fatti e i segnali concreti a dirci se si avrà il coraggio e la determinazione di percorrerla.  

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