È il tempo della Pietà

Esposte a Firenze, al Museo del duomo, fino al primo agosto le tre versioni della Pietà di Michelangelo. Emozionante il titolo dantesco “Non vi si pensa quanto sangue costa”.
Pietà di Michelangelo, foto di Juan M Romero - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=46153417

Chi avesse dubbi sulla religiosità di Michelangelo dovrebbe salire o scendere a Firenze e vedere accostate le tre Pietà scolpite dall’artista lungo il corso della vita. Da quella giovanile in san Pietro in Vaticano a quella Bandini qui a Firenze, all’ultima, la Pietà Rondanini a Milano (Museo del Castello Sforzesco). Un’emozione intensa le pervade e giunge a noi osservando l’originale appena restaurato, ossia la Pietà Bandini e i calchi delle altre due: calchi, ma insieme “presenze”.

C’è in queste sculture tutto il cammino spirituale dell’artista. La purezza incontaminata della giovinezza: il Cristo morto, bello come un Apollo classico, e Maria mater dolorosa ferma nel suo dolore ed accogliente la morte come gemito interiore. A 24 anni la morte si contempla come cosa futura, lontana e addirittura bella se c’è – come c’è – la speranza della resurrezione. Una bellezza che va oltre l’umano vibra in questo gruppo candido, una sintonia di cuore a cuore di madre col figlio che raramente si trova nella storia dell’arte.

La Pietà fiorentina, iniziata nel 1547, vedeva lo scultore ultrasettantenne concepire il gruppo per la propria tomba. Non per nulla egli si è ritratto nell’uomo incappucciato, un Nicodemo – Michelangelo affranto, meditabondo sulla Passione del Cristo. Lo scultore è colmo di mestizia e accompagna un Cristo morto e incompiuto nel sepolcro, sofferente nel corpo sempre forte, e donandoci la commozione del viso-a- viso di Maria, appena sbozzata ma intensa, col figlio.

Opera faticosa, con Michelangelo che vi scolpì il verso dantesco (Paradiso, XXIX) “Non vi si pensa quanto sangue costa” a riprova di una sofferta riflessione su Cristo, sulla passione propria e di ogni uomo. Nella  convinzione che solo attraverso il dolore si arriva alla luce. Opera faticosa questa, anche per la durezza del marmo: Michelangelo perse la pazienza e la scalpellò. Per fortuna, l’amico Tiberio Calcagni ne terminò la figura di Maddalena ed eliminò come potè i guasti compiuti dall’artista “terribile”.

Ed infine l’ultima Pietà, quella Rondanini, non finita e probabilmente non finibile, a cui Michelangelo lavorava quasi novantenne fino a pochi giorni prima di morire nel 1564. Guglia gotica, le due figure in cui la Madre presenta il figlio morto nell’antico gesto dell’ostensione, sono una vetta dell’anima. I corpi sono cortecce dello spirito, la materia è quasi assimilata ad un’altra dimensione di amore non più dolente, ma puro. Il vecchissimo scultore era arrivato alla contemplazione, lui grande artista mariano, in un lavoro che, anche fosse vissuto, non avrebbe potuto concludere, perché è già concluso in  sé stesso. È diventato porta aperta sulla eternità, poesia pura. Come nell’ultimo Tiziano e nell’ultimo Rembrandt. La materia è dissolta, rimane l’anima immortale, l’anima amante.

Le Tre Pietà di Michelangelo. Firenze, Museo dell’Opera del duomo. Fino all’1/8 (catalogo Silvana editoriale)

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