Teatro, ragazzi e logoteatroterapia

Intervista a Cecilia Moreschi, regista, attrice, drammaturga e docente teatrale, sulla disciplina che rende possibile l’incontro tra  teatroterapia, clownerie, comicoterapia, teatro-ragazzi e soprattutto abilitazione e riabilitazione del linguaggio. Il libro in uscita

Come si fa a stare in scena e recitare se si è audiolesi, iperattivi, dislessici, autistici? È possibile con la Logoteatroterapia che aiuta i piccoli pazienti ad acquisire autostima, consapevolezza, fiducia in se stessi e dare spazio alla necessità di voler comunicare. A spiegarci di cosa si tratta è la stessa ideatrice di questa disciplina, Cecilia Moreschi, regista, attrice, drammaturga e docente teatrale, la quale, alla fine del 2018, dopo un’esperienza più che ventennale di studio e lavoro sul campo, ha ideato questo metodo.

Si tratta di una disciplina che rende possibile l’incontro tra la teatroterapia, la clownerie, la comicoterapia, il teatro-ragazzi e soprattutto l’abilitazione e la riabilitazione del linguaggio. La troviamo approfondita in un suo recente libro Logoteatroterapia. Il teatro per le disabilità della comunicazione (Ed. WriteUp Site, collana Alberi), utile a chi, insegnanti e operatori, è impegnato nella cura delle disabilità.

Nel libro, lei fa, inizialmente, una breve, personale storia del teatro. Per quale motivo?
Secondo me, il teatro, ma tutta l’arte, è sempre, o può esserlo, terapeutico. Cioè fa sempre bene a tutti, considerando che la terapia è ciò che ci fa stare meglio, che allevia o anche supera, uno stato di sofferenza, di disagio.

Lei cita esperienze che dal dopoguerra ad oggi utilizzano il teatro come terapia consapevole, come Psicodramma, Drammaterapia, Playback Theatre, Teatro dell’Oppresso…
Sì, sono tutte quelle esperienze per le quali il teatro non è fine ultimo, ma è utilizzato come mezzo per una serie di disagi psichiatrici, educativi, sociali, ambientali, ecc.

Da qui arriviamo alla Logoteatroterapia, cioè il teatro applicato nelle disabilità delle aree del linguaggio e della comunicazione.
Riguarda tutti quei bambini, ragazzi e adulti, affetti da ipoacusia cioè sordità e dalle altre disabilità che hanno a che fare con la comunicazione: ADHD, autismo, iperattività, disabilità cognitiva, DSL, DSA ma anche la sindrome di Down o altre sindromi più rare. Ciascuna delle problematiche citate impedisce o rallenta l’armonioso sviluppo, il superamento delle tappe evolutive della persona che portano poi alla costruzione del linguaggio, ad una comunicazione che avviene guardandosi negli occhi, ascoltando ciò che ti viene detto, rispondendo in maniera congrua e contestuale, grazie a tutte quegli elementi, come il gesto, lo sguardo, la postura, la voce, il movimento, che arricchiscono la comunicazione fra gli individui.

Questi possono essere obiettivi da raggiungere?
Certamente, si possono allenare ed esercitare specifiche competenze come, giusto per fare qualche esempio, la costruzione della frase, l’attenzione uditiva, la concentrazione, laddove magari la disabilità da cui si è affetti fa sì che l’energia venga dispersa facendo stancare la stessa persona e chi le sta attorno. Il teatro è una grande palestra per allenare tali specifiche competenze.

Cosa ha in più il suo teatro?
Insieme alla terapia logopedica, a quella psicomotricista e/o psicologica, il teatro ha il grande vantaggio di essere divertente perché viene fatto insieme agli altri, e può ricreare eventi vissuti, dinamiche reali. Inoltre non si sta seduti a tavolino a fare gli esercizi, ma ci si alza, ci si muove, si gioca. Pertanto gli obiettivi si raggiungono con leggerezza e divertimento.

A chi è indirizzato il libro?
È pensato per tutti, non necessariamente per un regista o chi fa teatroterapia. Proprio perché sia un libro concreto, pratico per l’uso, ho descritto una serie di esercizi divisi per aree, ognuno con gli obiettivi che persegue, in modo che un operatore, ma anche un maestro di scuola, possa trovare delle risposte. C’è una progressione fino alle improvvisazioni e allo spettacolo finale. Tutto in funzione del linguaggio, verbale e non verbale.

Il libro racconta anche fatti che fanno capire meglio il suo modo di lavorare…
Ci sono degli stralci chiamati “Diario di laboratorio” in cui racconto tante cose successe. Per esempio, un giorno che c’era lo sciopero dei bus a Roma, ho chiesto ai ragazzi come avevano fatto ad arrivare a scuola. Dalle risposte ho capito che dovevo mettere da parte quello che mi ero prefissata di fare quel pomeriggio e lavorare su quello che era venuto fuori con loro; stesso cambio di programma quando un ragazzino arrivò imbronciato perché aveva litigato con la mamma, e dava le spalle a tutti non volendo parlare con nessuno.

Nelle conclusioni fa un bilancio della sua esperienza ormai ventennale sul campo…
Il lavoro che faccio mi piace tantissimo. Lo sento un grande regalo e fortuna, perché ho imparato tanto, e mi diverte ancora oggi. Considerando che il teatro si fa in carne ed ossa, nello spazio, insieme ad altre persone, trasferirlo su questo libro è riduttivo perché la pagina è bidimensionale. Però volevo trasmettere il messaggio che, al di là della Logoteatroterapia, vale la pena per tutti fare teatro, anche poche ore un pomeriggio. È un’esperienza forte e sconvolgente, in positivo, capace di trasformarti.

Lei lavora al Centro di Audiofonologopedia, collabora con l’Università La Sapienza di Roma, ma soprattutto da 25 anni fa teatro-ragazzi in varie scuole…
L’esperienza della scuola è fondamentale. Lì, a differenza dei corsi pomeridiani dove viene solo chi può pagare o chi ha genitori con la cultura del teatro, si ha una classe intera, formata da ricchi, poveri, disabili, stranieri. Questi ultimi li puoi incontrare solamente a scuola, per questo io amo lavorare con le classi. Riesco ad incontrare uno spaccato della società. E fare teatro è un’esperienza talmente forte per ciascuno, da farmi continuare a dire a tutti quelli che hanno figli: “fategli fare teatro!”. Non perché debbano fare gli attori da grandi, ma perché è una magnifica avventura, formativa.

In cosa può trasformare un ragazzo?
Per esempio, sul saper farsi da parte, per quei ragazzini che s’impongono sempre, che fanno i leader del gruppo. Quando si arriva allo spettacolo spesso vorrebbero la parte da protagonista. Ma io gliene assegno un’altra. Motivandogliela, facendo in modo che lo accettino, sono loro stessi che imparano, con la massima serenità, come fosse un atto d’amore, a farsi da parte e dire: “Ma lo sa, professoressa, che Antonio è più adatto a fare la parte del protagonista?”, e magari Antonio è lo sfigato della classe. Ma ci sono altri aspetti trasformanti: il prestarsi tra loro le cose, l’aiutarsi, l’ascoltarsi, il lasciare spazio agli altri, il modo come si guardano negli occhi magari stando 20 minuti in silenzio, o come si rivolgono gli uni agli altri in maniera armoniosa. Poi, certamente, se bisogna recitare la rabbia lo facciamo pure, però sappiamo che è per finta, che è recitazione, e un attimo dopo siamo più amici di prima.

Se dovesse sintetizzare l’utilità della pratica teatrale che lei attua, cosa direbbe?
Il teatro-ragazzi forma, aiuta e lavora per “costruire cittadini migliori”. Chiunque lo ha praticato da grande raramente diventa una persona cattiva, che schiaccia gli altri, che pensa solo al proprio tornaconto. Come si fa musica e arte alla scuola primaria, bisognerebbe introdurre il teatro come materia scolastica, e non solo in quelle scuole dove i presidi sono illuminati e chiamano noi professionisti.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons