A Taormina va in scena il post-globale

Presidenza italiana al vertice del G7 di maggio alle prese con gli scenari mondiali, tra migrazioni, sicurezza e diseguaglianze

È lontano l’invito dell’allora presidente francese Giscard d’Estaing ai “grandi della terra”, per discutere delle sfide

all’economia. In quel 1975 erano due gli elementi considerati: un mondo diviso dalla guerra fredda tra due modelli di economia e società, e la contesa delle fonti energetiche dopo che i Paesi esportatori di petrolio avevano imposto un loro ruolo geopolitico. Da G6 (Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti) a G7 (Canada), poi a G8 (nel post-sovietico) e di nuovo G7 (esclusa la Russia). Il gioco dei numeri aiuta a cogliere come l’incontro dei “grandi”, piuttosto che disporre soluzioni, mostra precisi rituali che si propongono di ricercare un equilibrio mondiale.

L’equilibrio,  eterna  finalità di relazioni internazionali ed espressione di quella coesistenza tra potenze che realizza, governa e interpreta lo scenario mondiale, e addirittura può sconvolgerlo in nome della stabilità. Che significato allora ha il tema centrale del G7 di questo 2017: “Costruire le basi di una fiducia rinnovata”? A spiccare è il deficit  di fiducia che patiscono i popoli nella loro quotidianità e guardando al loro futuro. E questo non può essere colmato dall’equilibrio tra le potenze, ma richiede di operare nella concretezza.

 

Tre punti chiave

L’attività degli sherpa (coloro che ricercano l’oggetto delle discussioni e tracciano funzioni e conclusioni del G7) iniziata dalla presidenza italiana, ha trovato una convergenza intorno a tre contenitori, specchio delle molteplici esigenze planetarie. La tutela dei cittadini di fronte alle minacce alla sicurezza causate da governance instabili, da conflitti ricorrenti ma sfuggenti alla logica tradizionale (soprattutto spesso distanti dalla localizzazione dei partecipanti al G7), dallo spettro del terrorismo e dagli effetti di una crescente mobilità umana percepita ancora come minaccia piuttosto che come realtà strutturale dell’attuale momento storico. Poi la sostenibilità economica, ambientale e sociale finalizzata alla complessa riduzione delle disuguaglianze che il consenso di 194 Paesi ha collocato nella Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, adottata in sede Onu nel settembre 2015.

La tutela della “casa comune”, ma anche la garanzia di diritti fondamentali che vanno dall’alimentazione all’istruzione, alla salute, al lavoro e a condizioni di lavoro dignitose hanno forse bisogno non di agende nazionali, ma di una propensione alla solidarietà, sinonimo di giustizia e non di emergenza.

E infine l’innovazione, le competenze e il lavoro di fronte alla rivoluzione dei sistemi produttivi, presentata ancora come una premonizione, mentre è già realtà che invece di coinvolgere tiene ai margini o esclude la maggioranza degli oltre 7 miliardi di persone che abitano il pianeta. L’innovazione presuppone trasferimenti di tecnologie e di proprietà intellettuale, il superamento del digital divide (cioè della distanza tra Paesi informatizzati e no) e la coscienza di una cultura del lavoro capace di superare l’efficientismo ad oltranza, magari per preoccuparsi di allargare il numero di commensali invece di far cadere solo delle briciole dalle grandi tavole imbandite (una scena intramontabile, quando si parla di welfare, cioè di Stato sociale).

 

Dialogo, deus ex machina Pensando di essere nel teatro greco di Taormina, è possibile immaginare che la paura (muri, contrapposizioni, nazionalismi e chiusure) e la pietà (conflitti, povertà, fame, sottosviluppo) non siano la vendetta degli dèi, ma frutto del dissennato comportamento dei mortali. L’effetto catartico per il G7 sarà il prendere atto che a quella della globalizzazione si è sostituita la scena di un mondo post-globale, dove gli attori recitano lunghi monologhi, senza ascoltarsi, proseguendo verso obiettivi unilaterali. E allora il deus ex machina non potrà essere l’equilibrio, ma il dialogo per imporre a tutti i protagonisti – anche quelli muti o assenti – di gettare la maschera e immedesimarsi nell’altro eliminando così le radici dell’ineguaglianza. Magari con un nuovo copione dove unità e fraternità sostituiscono la paura e la pietà nei rapporti internazionali.

 

 

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