Susanna Camusso alla guida della Cgil

Le difficili sfide che attendono il primo segretario generale donna.
Susanna Camusso

«Non avrei mai pensato di poter diventare segretario generale della Cgil» ha affermato Susanna Camusso, appena eletta a tale carica dal direttivo del più grande sindacato italiano. Non ha fatto riferimento, ovviamente, alla successione di Guglielmo Epifani, entrambi di estrazione socialista, già definita dall’ultimo congresso nazionale, ma alla storia personale di una giovane universitaria di lettere antiche che, a vent’anni nel 1975, decide di lasciare gli studi per dedicarsi completamente all’impegno con i lavoratori.

 

Si trattava di organizzare le “150 ore”, cioè il tempo retribuito di lavoro da dedicare al miglioramento della propria istruzione che per primi, nel 1973, i metalmeccanici riuscirono a far entrare nel proprio contratto nazionale. Istituto poi esteso a quasi tutte le categorie dell’industria come riconoscimento di una centralità del lavoro manuale che nelle assemblee studentesche di quegli anni si esprimeva, anche, con una presenza, molto rispettata, di “tute blu” chiamate a far conoscere le vertenze che interessavano tutte le fabbriche.

 

Tratti biografici comuni ad una generazione che, su diversi fronti, ha compiuto scelte radicali. Tempi molto lontani da un presente in cui, come ha riconosciuto la Camusso in una recente intervista, la vera sfida, di fronte ad un’organizzazione del lavoro profondamente mutata, è quella di «includere tutti», cioè dare rappresentanza a tanti esclusi da ogni contratto e tutela.

 

Mutazione che il neo segretario (lei stessa non chiede che si adoperi il termine al femminile) ha potuto osservare in 35 anni di impegno diretto che l’hanno portata a rivestire diversi incarichi nella “Federazione impiegati operai metallurgici” (Fiom) fino ad arrivare alla responsabilità nazionale per il decisivo settore auto dal 1993 al 1997 e poi in quello della siderurgia, per poi dedicarsi al settore dell’agroindustria in Lombardia e infine tornare a ruoli di responsabilità nazionali nel 2008.

 

L’investitura della Camusso non è stata unanime per il dissenso espresso da un 20 per cento della componente minoritaria, denominata «la Cgil che vogliamo», che ha contestato le dichiarazioni programmatiche della neoeletta, invitandola a non assumere nei confronti della Confindustria «scelte sbagliate e subalterne». Paradossalmente le felicitazioni e gli auspici per una nuova gestione «non nostalgica», «moderna e moderata» del sindacato da parte dei rappresentanti del Governo, Confindustria, Cisl e Uil sono destinati ad alimentare dissensi interni alla Cgil dove la Fiom chiede, con forza, la rottura di ogni indugio e la dichiarazione dello sciopero generale.

 

La Camusso si trova, perciò, davanti a scelte molto difficili visto che, come riconosce apertamente, «il governo ha raggiunto il vero risultato di dividere il sindacato e di rendere impossibile una mobilitazione di tutti che cambiasse l’azione dell’Esecutivo». E se l’unità sindacale con le altre sigle è considerata, dalla neo eletta, quanto mai indispensabile, «oggi, in realtà, ciò che ci divide è l’idea di rappresentare il lavoro, in termini anche di rivendicazioni, di capacità di cambiamento, di non subire supinamente le imposizioni del potere politico».

 

Una donna, dunque, alla guida di quella “Confederazione generale Italiana del Lavoro» che rimanda all’immaginario del suo primo segretario, il bracciante agricolo Giuseppe di Vittorio, e porta, ancora, il nome del 1944, quando fu siglato il “patto di Roma” tra le differenti tradizioni sociali del mondo del lavoro. Un’eredità che la Camuso vuol declinare in tempi difficili che chiedono risposte immediate (ad esempio sulla Fiat a Pomigliano), mentre la neoeletta è ben consapevole di come «i canali tradizionali di organizzazione che noi avevamo si siano, man mano indeboliti così come la nostra capacità di presa sul territorio». La Camuso è perciò impegnata in un lavoro di lungo termine per rispondere ad una «frantumazione intervenuta nel mercato del lavoro che sta rompendo lo stesso tessuto sociale».

 

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