Suonare con il cuore

Non si può non voler bene a Calogero, “Lillo” per gli amici. Siciliano solare, gioviale e senza grilli per la testa. Con una passione bruciante per la musica, che da Riesi, presso Caltanissetta, l’ha portato a Roma, via Catania. Passione ereditata in famiglia? “Non direi, visto che siamo quattro figli, con papà ex camionista, mamma casalinga. Piuttosto passione nata, come spesso da noi, a contatto con la banda del paese che provava in una sala vicino casa. Papà ci aveva infilato mio fratello, con mio grande dispiacere. Poi, però, visto che imitavo spontaneamente le melodie che sentivo con il flauto dolce, il maestro ha “licenziato” mio fratello (ride, ndr) e ha preso me. Ho suonato ad orecchio fino a dodici anni quando mio padre tenne un consiglio di famiglia sul mio futuro. E si decise che mi sarei preparato per entrare al Conservatorio di Palermo”. Dove ti sei trasferito ancora ragazzo e hai studiato sodo. “Siccome sono un tipo responsabile, ci ho dato dentro. Avevo un insegnante vecchio stampo che pretendeva che alla musica si desse tutto. Così ho smesso di frequentare le superiori e poi, seguendo (non proprio alla lettera) i suoi consigli – “Mangia di meno così ti compri i biglietti per i concerti”! – ho frequentato moltissima musica, conoscendo i grandi strumentisti a fiato. Andavo ai concerti sinfonici pomeridiani. Ricordo la prima volta che al Teatro Golden sentii il Manfred di C? iaikowskij: non avevo mai visto un’orchestra, guardai il clarinetto e sognai: “Chissà se un giorno ci arrivo, mi pare difficile, ma mi piacerebbe tanto!”. All’opera ci andavo poco, ma me ne innamorai quando ho ascoltato nell’85 la Forza del destino, con i cantanti, la scena, la sinfonia e poi il passo del clarinetto solo nel terzo atto” Mi sono conquistato il capoclaque per andarla a rivedere: confesso che questa musica di Verdi è una di quelle che periodicamente sono riapparse nella mia carriera, per esempio alle audizioni”. Diploma a diciannove anni, un posto di insegnante di musica a pochi chilometri da casa, e la prima audizione al Bellini di Catania. “L’ho saputo per caso, dai giornali. Mi presentai e ho avuto la fortuna di essere assunto come “clarinetto di fila”. Anche se lavoravo solo sei mesi all’anno e dovevo poi rifare l’audizione, alla presenza dei colleghi, fra l’altro” A casa si pensava fosse meglio continuare l’insegnamento, ma io ho rischiato, così sono rimasto per quattro anni al Bellini. Un’esperienza molto proficua: si facevano anche quaranta concerti strumentali l’anno in giro per la Sicilia – qui a Roma un po’ mi manca -, poi suonavo nella stagione operistica e sinfonica. Ricordo la mia prima opera, Le nozze di Figaro – Mozart, un altro autore che ritorna spesso nella mia vita – e i complimenti del direttore, a cui sembravo uno strumentista già sicuro” Poi, però, c’è stata l’avventura del militare. Alcuni superiori, alle mie richieste di studiare, magari rinunciando alla libera uscita, rispondevano: “Ma cosa vuoi fare, non ti basta essere già nella banda?” Per fortuna, un colonnello, appassionato di musica, mi ha dato il permesso di tornare a Catania per i concerti sinfonici, a patto di un biglietto d’ingresso” Intanto, mi stavo preparando per il concorso a Roma. Certo, al Bellini non erano felicissimi della mia eventuale partenza – ero ormai “primo clarinetto” -; per di più in quel periodo si stava provando un’opera nuova, Divara, di Azio Corghi con Will Humburg, un direttore molto bravo che però, giustamente, mi voleva sempre presente. Comunque ce la feci e dal gennaio ’97 sono approdato nella capitale dove vivo con mia moglie Maria, che è pianista, con la quale siamo sposati da tre anni e mezzo”. Dopo sei anni romani, hai un qualche bilancio da tracciare? “Senz’altro positivo, perché da subito mi sono sentito accolto dai colleghi. Poi, la possibilità di lavorare con maestri come Humburg con cui abbiamo eseguito Wagner, Armiliato così viscerale e Gelmetti che sa affascinare per il rapporto che crea fra scena e orchestra. Il mio esordio avvenne, cosa un po’ originale, al Teatro Argentina con un quintetto di Brahms; poi all’opera venne il Don Chisciotte di Massenet, e in seguito le altre produzioni, fra cui tanto Mozart. “Certo, devo ammettere che mi piace suonare di più in un’orchestra lirica che in una sinfonica, perché mi affascina quello che si svolge sul palco e poi il mio poter “copiare” con lo strumento un cantante che fraseggia in un certo modo, tanto che durante le esecuzioni penso di essere un po’ tutti i personaggi, buffi lirici o drammatici che siano, mi sento ciascuno di loro”. So che ami molto autori come Brahms,Weber e Mozart in particolare. A lui hai infatti dedicato il tuo primo cd. “Si tratta del Concerto in la magg. per clarinetto e orchestra, un brano molto famoso. L’avevo suonato, diretto da Gelmetti, nella stagione concertistica 2001-2002: un momento molto bello in cui direttore e solista eravamo tutt’uno. A questo concerto era presente il responsabile per l’Italia della marca francese dei nostri strumenti (Buffet Crampon, ndr), il quale rimase così colpito da proporre in teatro che si facesse, come si usa all’estero, una registrazione, assumendosene l’onere finanziario. La cosa singolare è che sia i colleghi che Gelmetti sono stati d’accordo nel prestare gratuitamente la loro opera, un gesto di stima nei miei confronti, alcuni mesi dopo il concerto: in tre ore di seduta, direttamente in “buca” – avremmo avuto dopo una rappresentazione della Butterfly – si registrò il brano, letto a prima vista dai colleghi e dopo alcune osservazioni nei punti nodali da parte del direttore. “E tutto è filato liscio, pareva un sogno”. La registrazione è molto bella, in particolare l’Adagio che è contemplativo e lirico, forse come il tuo animo. “È quello che ho sempre cercato. Mai ho suonato l’Adagio così lento come questa volta e sono stato contento che il direttore – che è uomo che sa ascoltare – me lo lasciasse fare, perché l’ho sempre sentito in questo modo: Mozart canta sempre, anche quando scrive per uno strumento, secondo me. E non si tratta di una cosa facile: suonare lentamente e far gustare la bellezza del fraseggio”. Calogero, a 32 anni sei proiettato verso una carriera promettente, anche perché possiedi un suono molto morbido e caldo. Quale il segreto? “Mia moglie dice che fuori della musica per me non esiste altro, ed è vero. Io lavoro diverse ore al giorno, perché credo molto nello studio e nell’entusiasmo. Quando, dopo un mio intervento in “buca” sento i commenti favorevoli dei colleghi mi entra in cuore una grande gioia. Soprattutto perché mi accorgo che chi ha ascoltato si è ritrovato in quello che, con grande impegno, ho cercato di dare”.

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