Sulle orme di Escrivá

Domenica 6 ottobre, ore 10. Sta per iniziare in piazza San Pietro la messa nel corso della quale il papa proclamerà santo Josemaría Escrivá de Balaguer. Impressiona questa gente, composta ed allo stesso tempo festante, che la gremisce in ogni suo angolo: si calcola che i presenti siano 300 mila, forse più, provenienti da 84 nazioni. Una distesa sterminata e varia di folla, costituita da persone di ogni età, condizione sociale e provenienza. Non si ha tuttavia la percezione di trovarsi immersi in una massa anonima ed indifferenziata, ma in una grande foresta che vive e respira in ciascuno dei suoi alberi la stessa linfa vitale. Ciascuno degli intervenuti si trova lì per una ragione precisa, personale: perché – mesi o anni prima – c’è stato un incontro che ha cambiato la sua vita, e che è riconducibile, non importa in quali circostanze, a Escrivá e al suo messaggio. Ognuno potrebbe raccontare una vicenda, unica ed irripetibile. Una storia misteriosa, intima, come quella che traspare qua e là, in lettere, appunti, scritti di vario genere che il fondatore dell’Opus Dei ha lasciato lungo l’intero arco della sua vita. Secondogenito di una famiglia profondamente cristiana, Josemaría fin da piccolo aveva percepito il primo segno di una chiamata. Aveva tra i 15 ed i 16 anni. “Ero solo un’adolescente – avrebbe detto poi – quando il Signore gettò nel mio cuore una semente infuocata d’amore”. Avvenne una fredda mattina d’inverno. Sul suolo innevato vide “una cosa apparentemente futile: l’orma dei piedi scalzi di un carmelitano sopra la neve “. Si commosse e si domandò: ma io, cosa sto facendo per Dio? “Ho cominciato a presagire l’Amore – proseguiva -. Non sapevo cosa Dio volesse da me, ma si trattava evidentemente di una chiamata”. A che cosa, sarebbe stato chiaro in seguito. Le circostanze storiche in cui nacque l’Opus Dei ci spiegano la consapevolezza di Josemaría circa l’origine soprannaturale della propria missione. L’atto di nascita della sua opera ha una data ben precisa: Madrid, 2 ottobre 1928. Josemaría ha 26 anni non ancora compiuti ed è sacerdote da tre. Vi si è trasferito per seguire un dottorato in diritto civile. Ciò non gli impedisce tuttavia di esercitare il suo ministero negli ospedali e nei quartieri poveri della periferia. Tutto avviene in pochi istanti, quel giorno, a un’ora precisa del mattino, durante gli esercizi spirituali, mentre sta raccolto in preghiera nella sua stanza. Josemaría Escrivá “vede” ciò che il Signore gli chiede. Quel giorno, scriverà poi, “il Signore ha fondato la sua Opera”. “Madrid è stata la mia Damasco “, dirà più tardi ricordando la folgorazione di san Paolo raccontata negli Atti degli apostoli. Un’illuminazione improvvisa, dunque. Egli si sente solo strumento – per di più, “inetto e sordo”, come da allora inizia a definirsi – di un disegno divino. Dei, con cui prese a denominare il fenomeno pastorale scaturito da quell’illuminazione, venne solo più tardi, nel 1930. Da quel 2 ottobre, la sua vita ebbe un solo scopo: compiere la missione che Dio gli aveva affidato. Tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, quando l’Opus Dei era come un fiore appena sbocciato, il fondatore ne illustrava il futuro, che in seguito è diventato realtà. Lo descriveva e lo metteva per iscritto con spirito profetico, vedendo con lo sguardo della fede il frutto della grazia e dell’opera di tanti uomini e donne dei cinque continenti, un gran numero di progetti al servizio di tutti, scuole e università, centri di formazione professionale e scuole di agraria, iniziative innovative per la promozione della donna, residenze universitarie. Per arrivare quanto prima a tutti, bisognava, secondo Escrivá, cominciare dagli intellettuali, che sono “come le nevi che imbiancano le montagne: se si lasciano illuminare dalla grazia di Dio, si trasformano ben presto in torrenti, in corsi d’acqua che danno vita alle vallate”. Che cosa proponeva Escrivá agli uomini ed alle donne che incontrava? “Siamo venuti a dire – scriverà già nel 1930 – con l’umiltà di chi si sa peccatore e poca cosa ma con la fede di chi si lascia guidare dalla mano di Dio, che la santità non è una cosa per privilegiati: che il Signore chiama tutti, che da tutti si attende amore. Da tutti, ovunque si trovino, di ogni condizione, professione e mestiere. Perché la vita normale, ordinaria, può essere mezzo di santità”. Alla fine degli anni Venti, il suo messaggio appariva carico di novità. Non ha mancato di sottolinearlo il card. José Saraiva Martins, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, in un articolo comparso sull’Osservatore Romano del 21 settembre scorso. Esso, rileva l’autore dell’articolo, “portava, da una parte, alla presa di coscienza del ruolo attivo dei laici nella missione della chiesa; e postulava una nuova percezione teologica delle realtà terrene: il mondo non era più visto principalmente come regno del peccato, realtà da cui mantenere una certa distanza, ma come una realtà dotata di senso divino, creata da Dio, redenta da Cristo, e da ricondurre, nell’oggi, a Dio”. Si aprivano così, per usare ancora un’espressione cara a Escrivá de Balaguer, “i cammini divini della terra”. Si tratta di un grande cammino fatto nella chiesa verso quella santità cui ogni cristiano è chiamato. Come non ricordare i grandi insegnamenti a questo proposito del Vaticano II e quelli, a noi più vicini, della Novo millennio ineunte, in cui Giovanni Paolo II ha lanciato l’ormai noto appello: “È ora di riproporre a tutti, con convinzione, questa misura alta della vita cristiana ordinaria “?. E come non ricordare le canonizzazioni, in questi anni, di tanti cristiani, tra cui molti laici, che si sono santificati nelle condizioni più normali della vita? Secondo noti ed autorevoli studiosi, “Escrivá possiede la forza dei classici, la tempra di un padre della chiesa. Ed i suoi scritti comunicano una dottrina che ha contribuito ad aprire una nuova epoca nella chiesa “. A far maturare sempre più tale “nuova epoca” contribuirà, senza dubbio, l’evento della canonizzazione di Josemaría Escrivá. Il progetto harambee 2002 Nella lingua swahili, harambee significa “tutti insieme”: è il grido dei pescatori quando tirano a riva le reti, il passaparola quando è necessario intraprendere un lavoro di utilità comune. È il nome scelto per promuovere, in occasione della canonizzazione, un fondo di solidarietà per finanziare programmi di istruzione e educazione in Africa. “Ognuno vive la canonizzazione come un momento di gioia, come un regalo – spiega Linda Corbi, coordinatrice dell’iniziativa -, e quando riceviamo un dono, il sentimento più spontaneo è la gratitudine. Vogliamo condividere questo regalo con chi si trova in maggiori difficoltà, per ciò abbiamo invitato i pellegrini, e tutti coloro che vorranno unirsi all’iniziativa, a dare un contributo al progetto. La proposta è il versamento di un importo minimo di 5 euro. I fondi saranno assegnati attraverso un concorso pubblico, aperto a tutti gli enti che promuovono attività educative in Africa. I requisiti per partecipare sono pubblicati nel sito www.escrivà@canonizzazion.org. Una santità attuale Quattro domande a mons. Javier Echevarría, prelato dell’Opus Dei. Qual è il filo conduttore, il centro del messaggio di Josemaría Escrivá, valido ancora oggi? “Il padre insegnava che la vocazione – con le sue esigenze e le grazie necessarie per portarle a compimento – non va attribuita esclusivamente a pochi eletti o privilegiati, ma si estende a tutte le persone create da Dio a sua immagine e somiglianza. Josemaría Escrivá è stato infatti un pioniere nel proclamare che la volontà di Dio per tutte le anime è la santificazione personale, ovvero la pienezza della vita cristiana; compito di ciascuno, da adempiere nelle circostanze ordinarie nelle quali la Provvidenza divina lo ha posto, nel proprio lavoro professionale che diventa così mezzo e strumento di santità e di apostolato”. E qual è il segreto del dinamismo di un messaggio di santità che non vuole essere per pochi, ma per chiunque? “Sono le dimensioni disgiunte del soprannaturale e dell’umano, ciò che il padre si impegnò a conciliare senza confondere. Ripeteva instancabilmente che la filiazione divina – sentirsi figli di Dio e sapere che realmente lo siamo -, è il fondamento della vita spirituale. Come diceva:”Urge cristianizzare la società, portare a tutti i livelli della nostra umanità il senso soprannaturale, e poi impegnarci insieme a elevare all’ordine della grazia il dovere quotidiano, la propria professione, il proprio mestiere. Così tutte le occupazioni umane saranno illuminate da una speranza nuova, che trascende il tempo e la caducità mondana””. Questo ideale di santità nel mondo è grandioso, ed allo stesso tempo normalissimo, dunque. Come lo vivono coloro che aderiscono all’Opus Dei? “Dobbiamo essere molto umani”, insisteva Josemaría Escrivá, “perché altrimenti non potremmo essere divini”. Niente distingue esteriormente i fedeli dell’Opera dagli altri cristiani, con i quali convivono gomito a gomito nella città degli uomini. Non certo perché nascondono la loro unione con Dio; al contrario, la rendono evidente, senza timidezze né ostentazioni, a quanti li circondano, cercando di avvicinarli alle meraviglie della grazia divina. Non si comportano “come gli altri”: sono radicalmente “uguali agli altri”, senza mentalità da eletti, condividendo con tutti le speranze e le inquietudini che la vita su questa Terra comporta”. Mons. Javier Echevarría, lei è stato per oltre 25 anni collaboratore di Escrivá, sino alla sua morte. Qual è il ricordo dell’uomo Escrivá? “Fu di temperamento fervido e penso che lo si notava in modo particolare quando parlava di nostra Madre la Vergine, o nel descrivere la sua speranza nella visione beatifica.Tutto il suo essere respirava l’allegria di chi riceverà un tesoro, perché suo Padre glielo ha preparato. Parlavano i suoi occhi penetranti, luminosi, sereni: parlava il suo tono di voce persuasivo, caldo, di una sicurezza tangibile: parlavano i suoi gesti, che lasciavano intravedere l’unione con Dio di cui era già partecipe e che il papa ha proclamato solennemente in piazza San Pietro il 17 maggio 1992”.

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