Sulle orme dei grandi dello Spirito

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Pubblico e privato sempre più confondono i confini stabiliti nei decenni da tradizione e convenzione. Se tale riavvicinamento pare a taluni portare a una lenta deriva delle norme del convivere sociale, altri plaudono alla fine di steccati artificiali tra i diversi ambiti della vita. C’è esigenza di coerenza. È con tali sentimenti che il cronista si trova a scrivere della recente visita di Chiara Lubich in Spagna: le visite private hanno infatti portato insegnamenti pubblici, e gli appuntamenti pubblici implicazioni nel privato. La luce dello Spirito A Manresa, si visitano i luoghi ignaziani: qui Ignazio di Loyola soggiornò undici mesi “pensando alle cose di Dio”. Qui ebbero luogo alcune ispirazioni intellettuali, “la grande illuminazione del Cardoner”, il fiume che scorre a valle dell’antico abitato, come scrive il Nadal: “Qui Ignazio comprese il suo fine e quello a cui doveva applicarsi e avere come scopo in ogni sua opera, scopo che è ora quello della compagnia”. Nella visita di Chiara Lubich alla Cova de Sant Ignasi, dove il fondatore scrisse gli Esercizi spirituali, è venuto naturale meditare sulla presenza dello Spirito nella vita, in particolare di chi la dedica a Dio. Del passaggio a Manresa ci si sovviene nella visita al seminario maggiore di Madrid. Oltre 250 persone, tra cui 200 seminaristi, e rettori, formatori e professori, accolgono Chiara Lubich. Andrés Garcia, il rettore, saluta “questa donna che ha la passione per l’unità”. I seminaristi hanno volti aperti, limpidi. A loro l’ospite racconta l’av- ventura dell’unità di cui è prima protagonista. Mormorii di approvazione sottolineano i passaggi più evangelici, senza infrangere l’attesa spirituale. Sottolinea l’importanza dei carismi, antichi e nuovi, e della loro comunione: non a caso sono presenti seminaristi di diversi movimenti. La Lubich conclude: “Una delle conseguenze di quanto è avvenuto fra noi è che si può già prevedere come potrà essere la chiesa se questa comunione proseguirà: sarà più una, bella, attraente, familiare, carismatica, dinamica, mariana”. Una conclusione che annuncia un solido applauso. Poi alcune domande: cosa ci suggeriresti se fossi un parroco? come favorire i contatti ecumenici? e con gli immigrati? Chiara, in fondo, dà un’unica risposta, anche se declinata in diversi modi: l’arte di amare che viene dal vangelo risolve ogni problema, purifica ogni intenzione e costruisce la chiesa. Nel vociare sommesso ma gioioso, tipico dei seminari, fioccano i commenti. Dice Rubén Inocencio Gonzáles, studente del quinto anno: “Arrivo alla conclusione che Cristo è vivo, Cristo è tra di noi, così come ciò che lui ci ha detto”. E Juan Miguel Prim Goicoechea, rettore del seminario di Alcalá de Henares: “Per un sacerdote, che rischia di essere un funzionario del sacro, la possibilità di fare l’esperienza dell’amore di Cristo e di poterla comunicare a tutti è tutto”. Marta e Maria “Solo Dios basta”. Così è dipinto sui muri all’entrata del Monasterio de la Encarnaciòn ad Avila, il convento dove Teresa di Gesù visse trent’anni, e dove ebbe la conversione che la portò alla riforma del Carmelo e alla straordinaria avventura che si suole sintetizzare nell’immagine del “castello interiore” che l’uomo deve costruire in sé per accedere alla comunione con Dio. Ecco l’ufficio di Teresa, povero, arredato con mobili d’epoca: su una parete c’è il modesto affresco della crocifissione dinanzi al quale la madre decise di mettere definitivamente la sua fiducia in Cristo. Ed ecco il parlatorio, dove avvenivano le conversazioni elevatissime di Teresa con l’altro gigante del Carmelo, Giovanni della Croce. Qui suor Beatrice vide entrambi sollevarsi da terra. Poi il coro superiore, austero nel legno degli scranni, ma rilucente d’oro nel polittico dominato da una grande statua di Maria (che un giorno, si dice, parlò alla madre) e da un crocifisso sanguinante. Dal coro inferiore, invece, Teresa e le consorelle seguivano le celebrazioni. Ricevendo l’eucaristia da Giovanni della Croce, qui strinse il cosiddetto “matrimonio spirituale”, una visione nell’intimo in cui lo Sposo le diede la mano destra dicendole: “Guarda questo chiodo, sarai d’ora in poi la mia sposa”. Visse ancora sette anni, fino a quando “morì d’amore”. E poi la “cella del dardo” e il “piccolo carcere”, dove la madre trascorse da reclusa sei mesi dopo la prima, travagliata fondazione: richiamata dal prelato, fu costretta a ritirarvisi. Non se ne lamentò mai: diceva di godere della compagnia di Gesù e Maria. Quando Teresa entrò in convento, erano presenti 160 suore, ognuna con appartamento e seguito, chi ricca e chi povera: nella nuova regola, volle perciò che fosse scritto che ogni comunità contasse 21 suore, “come un piccolo collegio di Cristo”. Ed è l’intero gruppo delle suore del monastero che si riuniscono per far festa all’ospite, in fondo al chiostro inferiore. Sono anziane sorelle coi tratti scavati e gli occhi fissi al cielo, donne mature che hanno messo il mondo alla porta, giovanissime bellezze che bramano lo sposalizio col più bello dei figli dell’uomo… Quale poeta potrebbe descrivere i brevi sospiri, quasi sommesse grida delle monache che accolgono l’ospite, la circondano, le stringono la mano, la baciano? È l’incontro di due carismi, uno antico, l’altro nuovo. Chiara Lubich scrive sul libro d’oro: “Continua a vegliare su tutti noi, Teresa, sul nostro “castello esteriore” che lo Sposo ha suscitato sulla terra a completamento del tuo “castello interiore” per far la chiesa bella come la desidera”. Teresa, negli ultimi anni di vita, fondò ben sedici monasteri, un’enormità. Diceva che in quegli anni avvertiva come “Marta si unisse a Maria”: azione e contemplazione erano una sola cosa. È in quest’atmosfera che avviene, in un sobborgo di Madrid, a Las Matas, l’inaugurazione del Centro Mariapoli “Luminosa”, un moderno edificio destinato all’accoglienza e alla formazione di gente vicina ai Focolari, ma non solo. C’è l’arcivescovo di Madrid, card. Antonio Maria Rouco Varela, e c’è l’ambasciatore italiano in Spagna, Amedeo de Franchis, il direttore della scuola diplomatica spagnola e quello degli affari religiosi nel ministero di giustizia. Una cerimonia ufficiale, ma distesa e gioiosa, a cui, come sottolinea il cardinale, “partecipano le più varie componenti del popolo di Dio”, dai cardinali ai bambini, a tutti coloro che hanno portato il loro “mattone” per la costruzione del centro. Esprime un desiderio: che esso possa servire da esempio per l’intera diocesi e per la Spagna, per costruire quella “città nuova” che Maria sa edificare”. Ascetica e mistica Posta su uno sperone roccioso, Segovia circondata dalle mura medievali si erge misteriosa: guglie, campanili, fortezze. Ci mettiamo sulle tracce di Giovanni della Croce, sepolto nel Monasterio de los Carmelitas che lui stesso contribuì a costruire, estraendo con le sue mani le pietre dalla montagna. Preghiera e comunione coi fratelli: la vita comunitaria era completa, persino della ricreazione, sconosciuta nei monasteri dell’epoca. La “negazione” propugnata da Giovanni della Croce non era tanto ascetica, quanto mistica: l’amore era la vera “negazione”, non la privazione fine a sé stessa. Era anche, come si sa, un grandissimo poeta: con i suoi versi parlava di Dio senza nominarlo, usando un vocabolario comprensibile a tutti. Si dice che Rafael Alberti, grande poeta spagnolo, comunista ateo, poco prima di morire sia venuto a Segovia, per ritrovarsi con Giovanni e con il mistero di Dio. Anche qui Chiara Lubich firma il libro d’oro: “San Giovanni della Croce, eccoci qui a venerarti dove sei ancora così presente. Grazie di quello che hai fatto per noi durante tutta la nostra storia. Quanta luce, quanto incoraggiamento a continuare la nostra strada dietro a Gesù Abbandonato che tu pure hai conosciuto. Continua ad aiutarci col tuo carisma”. Un altro incontro tra carismi. Giovanni della Croce era un antesignano del dialogo, e quindi viene da ritrovare il suo insegnamento oggi che la Spagna è attraversata dal sottile timore di una nuova presenza musulmana. Chiara Lubich incontra una ventina di musulmani, tra cui dieci imam di diverse moschee spagnole e del nord-Africa, invitati da Allal Bachar, imam della moschea di Marbella per conto del re d’Arabia Saudita. Non ha dubbi sull’importanza dell’appuntamento: “Incontriamo la leader di un movimento che costituisce il primo vero passo verso l’unità dei credenti di diverse religioni”. E annuncia il tono dell’incontro: “Mentre il mondo prepara la guerra, noi prepariamo la pace, grazie all’amore che è nei nostri cuori”. La Lubich parla di fraternità, pace, amore e unità da ricercare pur nella diversità. In un dialogo senza fronzoli anche a loro riesce a trasmettere l’idea dell’arte di amare come via alla fraternità universale, come antidoto alla violenza e al terrorismo: “La religione – dice – è via di pace e di amore, non di guerra e di odio”. Una terra di castelli A Segovia, Manresa e Avila, i profili della città sono segnati dai castelli. Se ne trovano ovunque, in queste terre. Forse anche per questo Teresa aveva scritto del “castello interiore”, realtà culmine delle “spiritualità individuali” come erano anche quelle introdotte da Giovanni della Croce e da Ignazio, ma anche dagli altri numerosi santi spagnoli, ben 92. Chiara Lubich più volte, nel corso del viaggio, è tornata invece sul “castello esteriore” proposto dal carisma dell’unità, che, lungi dal volersi contrapporre a quello interiore, ma anzi in continuità con esso, vuole mostrare piuttosto il frutto di una “spiritualità comunitaria”. Quel “castello esteriore” che, in fondo, è vocazione di tutta la chiesa. Per costruirlo, pietra su pietra, la Lubich propone la disarmante semplicità di una “arte di amare” di origine assolutamente evangelica. La propone a tutti, per una “santità di popolo”. E raccoglie consensi, ampi consensi.

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