Sul margine di un foglio di Dario Prola

Paesaggio Una casa fra balzi di colline. Stretta dietro una gola, acquattata tra le mie parole secche come rami. Fuma il camino. Lungo il cammino per arrivare a battere la porta. A colpire la bocca con le nocche. La casa più non parla. Sono tutti morti. Gebirtig Gebirtig Mordechaj (1), il legno schiocca come lingua, sibila il tuo nome nella neve, sparpaglia le parole come trucioli di ghiaccio. Vola alto il tuo bancone, vola ebreo musicante falegname, la fisarmonica s’illumina delle luci di Natale, vola alto e fai musica lieve, fai scendere la neve. Canta per il fango, nutrito dai tuoi figli, canta per il sole muto spettatore, canta a tutte le ore per gli orecchi briachi. Canta nei buchi, nei pertugi, nelle nicchie, canta sui tegoli, sui tuguri e i cespidi di bacche, volteggia le tue note come aride sassate, suggerisci il tuo blasfemo canto di pace. Sensazione nel paesaggio Lo scroscio dell’onda. Le lame del mare rimandano bagliori, il sole è allo zenit. L’aria è già piena di un vibrante sereno. Le rocce rimandano odori di muffe. Il mare è calmo, lambisce le rocce, floppa fra gli anfratti. Una tensione, un ronzio accrocchia l’anima tua, come germinasse una poesia. Un vento tenue smarezza la pelle del mare, la fa brividire di nostalgia. Il giovane Tu che abiti in una grande città dell’Europa. Questa mattina era sabato, hai preso un tram che porta in un luogo che tutto con- tiene. Un angolo del parco, solo più tuo, dove arrivi passando l’ingresso centrale. Lì senti ricordi che non dici a nessuno, i colori nascosti nelle piaghe dell’aria che forse è ciò che rimane di vite stillate. Ti fermi a sentire il brusio della città, lasciandoti brunire dal sole, levigando una volta le tue sensazioni. Stai bene. Sei un giovane che pulsa dentro la vita e ancora sai farti predare dall’attimo. Stai bene, sei molle e leggero, i tuoi pensieri volano intorno come soffioni che spandono al fiato di bimbi. Sei tutta armonia e il tuo vivere è intrecciarsi di luce e colore. Sai lasciarti predare dall’attimo. La porta Dietro la Grande casa c’è una porta che mette al giardino del padre. È quello il suo mondo, rimestare sudore alla terra e zappare radici, mettere in fila borlotti, zucchine e patate come truppe destinate alla quotidiana battaglia in cucina, scintillii di coltelli e marciare di denti. La porta ha una sua trave pesante per braccia virili, è vecchia e quando chiude schianta come una voce baritona. È massiccia e leggera, ha chiodi che non usano più. Non ha serratura, non si apre da fuori, la passa come un segreto chi ha le chiavi di casa. Ma prima bisogna entrare nel patio, venir visitati una volta e mettere brio, vedere le stanze e sentire le storie di lance ed eredità combattute. Sono lance di legno africano. Solo allora si apre la porta.

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