Sul fine vita. Questioni etiche

Il referendum per la legalizzazione dell’eutanasia ha dato nuovo vigore al dibattito sulle questioni etiche relative al fine vita. Ne parliamo con Fabrizio Turoldo, docente di filosofia morale presso l’Università degli Studi di Venezia, autore del saggio L’etica di fine vita (Nuova edizione), appena uscito per i tipi di Città Nuova.
Copertina de L'etica di fine vita
L'etica di fine vita,. di Fabrizio Turoldo

Si sente parlare moltissimo di eutanasia, di accanimento terapeutico… Qual è il suo punto di vista in merito alle tecnologie mediche e ai modi e limiti della cura?

Fabrizio Turoldo: Il punto che lei ha toccato è quello decisivo, intendo la questione delle tecnologie mediche. Queste problematiche – l’eutanasia, l’accanimento terapeutico – sono state discusse moltissimo a partire dal secondo dopoguerra. Ad esempio, in cardiologia l’introduzione di nuove tecniche di massaggio cardiaco, di nuovi farmaci come l’adrenalina, per esempio… oppure i defibrillatori elettrici, sono solo esempi, ma sono utili perché ci riportano ad una situazione in cui era difficile distinguere i casi in cui la rianimazione poteva portare un effettivo beneficio ai malati e le situazioni in cui l’intervento medico poteva essere dannoso (come pazienti terminali che venivano rianimati con il risultato di prolungare l’agonia…). In questo contesto si è iniziato a parlare di accanimento terapeutico.
Sono questioni che sono state prese in esame dai filosofi e dai leader delle grandi religioni. Penso a Pio XII che si è molto interessato a tali questioni. Rifletteva sul fatto che a volte le tecnologie non vengono usate per il bene dell’uomo. Faceva varie distinzioni… E quando è bene lasciar morire una persona… e lasciar attraversare alla persona una morte che deve essere umana e non eccessivamente tecnologizzata. Queste brevi riflessioni ci fanno capire che eutanasia ed accanimento terapeutico sono due facce della stessa medaglia perché si tratta di voler anticipare o posticipare la morte, ma in entrambi i casi si tratta di una volontà di dominio sulla morte. Invece l’idea è quella di una morte umana in cui la tecnologia viene utilizzata rimanendo all’interno di quelli che sono i giusti limiti. Questa è forse la prospettiva migliore. Certo queste tecnologie introducevano delle novità, perché fino a quel momento in medicina nessuno aveva mai pensato che ci si dovesse astenere dal fare qualcosa. Il medico doveva fare tutto quello che era possibile. Invece le tecnologie ci fanno pensare che la medicina a volte può far male se usata con eccesso. C’è un’etica del limite. Non solo si deve fare il bene ma non si deve fare il male.

Aspetto centrale del prendersi cura – da parte degli operatori sanitari e dei familiari – è rappresentato della comunicazione con il malato o il morente. Può spiegarci?

Fabrizio Turoldo: Questo è un altro punto importantissimo. La malattia se non è intesa in senso puramente fisiologico, organicistico, come disfunzione del nostro organismo, è qualcosa di molto complesso. Incide sul nostro vissuto. Quando una persona si ammala, la malattia innesca una crisi. Perché la persona spesso deve ripensare ai propri progetti, alla propria identità narrativa, abbandonare i propri progetti per un certo tempo. Una crisi può essere una crisi subita o una crisi feconda. E qual è la differenza? Una crisi feconda è quella che riesce a venire al linguaggio, riesce ad essere comunicata. Attraverso la parola, il confronto con gli altri, è possibile “riannodare” la fila della propria identità narrativa. La malattia si associa spesso al dolore e alla sofferenza. È interessante cogliere bene qui questa distinzione. Quando parliamo di dolore intendiamo quello l’entità fisica del male, quella che può essere alleviata con dei farmaci. Ma non è solo questo. C’è anche, oltre all’entità fisica del male che mi colpisce, c’è anche il significato che io do a questo dolore. C’è anche una risonanza emotiva. Uno stesso dolore può essere percepito in maniera totalmente differente. Ad esempio, il dolore di una partoriente. Se il figlio è desiderato o non lo è cambia di segno.

Nell’affrontare il delicato argomento delle decisioni sul fine vita – dal testamento biologico all’accanimento terapeutico, all’eutanasia – dà ampio spazio nel suo libro – L’etica di fine vita –  al concetto di autonomia… Cosa intende? Non c’è il rischio di scadere nel relativismo etico?

Fabrizio Turoldo: C’è un motivo per cui io dedico ampio spazio al tema dell’autonomia. Il motivo è questo. La bioetica nasce attraverso un riconoscimento forte di questo valore. Se dovessimo in poche parole spiegare il passaggio dall’etica medica alla bioetica potremmo dire che si passa dall’etica medica alla bioetica attraverso il riconoscimento dell’autonomia del malato, perché l’etica medica è un’etica che ha origine antichissima almeno in Occidente – pensiamo ad Ippocrate -, è un’etica dal punto di vista dei medici. Quindi il principio etico prevalente è quello della beneficienza. Il medico deve fare il bene del paziente. Già alla fine dell’’800, ma soprattutto nella metà del ‘900, il tema dell’autonomia del paziente viene messo in primo piano quindi la bioetica non è più l’etica del medico, ma di tutti coloro che hanno a che fare con l’impresa medica, quindi i medici, i pazienti, la società. Allora da un lato c’è il medico che sa qual è il bene del paziente – il principio di beneficienza – dall’altro c’è il paziente che vuole avere voce in capitolo. Vuole poter decidere qual è il proprio bene. In alcuni casi ci può esser uno scontro tra quello che il medico ritiene il bene del paziente e quello che il paziente ritenga bene per sé.
La bioetica nasce mettendo insieme diversi punti di vista. Allora l’autonomia è importante perché è un nuovo principio ma io non credo che l’autonomia debba essere assolutizzata. Perché faremmo l’errore opposto, speculare, rispetto al vecchio paternalismo autoritario. L’autonomia va messa in relazione con altri principi. Va benissimo la beneficienza, ma è una beneficienza intesa in senso relazionale. Il medico deve fare il bene del paziente ascoltando il paziente. E così l’autonomia, ma non deve essere assolutizzata. Io metterei in primo piano un altro principio che mette insieme tutti gli altri ed è quello della responsabilità. Questa tiene insieme tutto. Significa rispondere a qualcuno, ma anche che di qualcuno cerco di fare il suo bene.

Il saggio di Fabrizio Turoldo, L’ETICA DI FINE VITA, nuova edizione, (pp. 132, € 17.00) è disponibile in libreria, negli store online e sul sito di Città Nuova. Lo trovi qui.

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