Suicidio: scelta di libertà o sconfitta?

Le recenti morti per suicidio di personaggi noti e di alcuni sacerdoti ripropone il significato che la Chiesa ripone in quest’atto estremo. Che in ogni caso abbisogna di rispetto e silenzio.
Un uomo in riva al mare

La notizia che una persona si è tolta la vita specie se conosciuta ti lascia nello sgomento e costringe a porsi la domanda: ma perché l’ha fatto? Nei giorni scorsi l’attenzione di tutti è stata catturata dalla notizia di cronaca riportata dai giornali e telegiornali di tre suicidi avvenuti in circostanze diverse a breve distanza l’uno dall’altro, creando nell’opinione pubblica sconcerto e smarrimento.

 

Un sacerdote di 51 anni si è gettato sotto il treno dopo aver saputo dell’accusa fatta dalle Iene di aver molestato diversi ragazzi. Qualche giorno più tardi un diacono viene trovato morto sotto la rupe di Orvieto. Nella lettera inviata alla curia vescovile chiede perdono al Signore e a quelli della famiglia per questo gesto, scrivendo: «Volevo diventare sacerdote, ma mi è stato negato».

Due giorni dopo la notizia che il famoso regista novantacinquenne, Mario Monicelli, ricoverato in una clinica per curare un tumore si è gettato dal quinto piano. Non ha lasciato nessun scritto, ma la moglie ha dichiarato che «viveva in modo non consono alla sua dignità di uomo» e a voce più volte aveva affermato «che era stufo, e si chiedeva che vita fosse la sua», e anche «di non voler soffrire a lungo». Sempre la moglie ha poi dichiarato al Corriere della sera ha dichiarato «che Mario si portava dentro la tragedia del suicidio del padre cui aveva assistito e ne era rimasto scioccato».

 

Di fronte a queste notizie che toccano senz’altro l’emotività personale e collettiva, sarebbe fin troppo facile lasciarsi trascinare in valutazioni superficiali o ideologiche, nel formulare giudizi di condanna, o cadere in generalizzazioni che non aiutano a cogliere il vero dramma di chi è arrivato a compiere questo gesto estremo. Sono rimasto fortemente colpito da alcune impressioni espresse dai giornalisti che riportavano la notizia.

C’era chi vedeva nel gesto di togliersi la vita «un atto di coraggio» o di libertà; chi lo vedeva come la soluzione al problema del dolore e della morte. C’è stato anche chi ha visto nel suicidio un atto di viltà, di resa o fuga dalla realtà, una sorta di sconfitta. Qualcuno si è affrettato a pronunciare un severo giudizio morale. Qualche altro è arrivato a chiedersi perché in questa società il suicidio sia visto ancora come un tabù o qualcosa che si deve evitare assolutamente, riscontrando in questo atteggiamento una grande ipocrisia.

La notizia di questi fatti e le impressioni espresse dai giornalisti hanno avuto in me un doppio effetto. Dapprima la necessità di staccarmi dallo sgomento emotivo provocato da un fatto tragico come il suicidio e di fermarmi di fronte all’assurdità del gesto in quanto nessuno conosce veramente la causa scatenante. Nessuno, infatti, può presumere di poter valutare e giudicare la persona.

 

Dietro ad un simile gesto c’è comunque un dramma, un conflitto interiore, ci sono motivazioni consce e inconsce che possono venire dal proprio vissuto, dal proprio passato; ci sono valori o disvalori, la scoperta o no del senso della vita, il senso del dolore e della morte per una persona umana.

Non si può dimenticare che ogni persona è unica e anche se più persone compiono lo stesso gesto, le motivazioni e le situazioni personali e sociali sono completamente diverse. Perciò rispetto e silenzio, sostenuti però da un vero amore per la persona, che riesca a comprendere fino in fondo il dramma di dolore vissuto e la sofferenza provocata ai parenti, agli amici, ai conoscenti, a tutta la società per la scomparsa in maniera tragica.

Un secondo effetto. È l’esigenza di fare un po’ di chiarezza sulle valutazioni espresse in questa circostanza dai vari commentatori che oltre a condizionare il modo di pensare comune, rischiano di deformare la coscienza delle nuove generazioni.

 

Prendiamo atto che nella nostra società occidentale si è diffusa l’idea che la vita non è più intangibile e non è più frutto di mera fatalità, ma esiste la possibilità di manipolarla e di spostarne i confini naturali. Si è diffusa anche l’idea che la vita è qualcosa di cui ciascuno può disporre come crede in piena libertà e autonomia senza nessun riferimento a valori, agli altri, neppure alla propria coscienza. Si pensa che non basti più richiamarsi a Dio come autore della vita perché chi non crede si senta obbligato a vivere una vita che per lui ha perso ogni senso e perciò contraria alla sua volontà.

Se è vero che non esiste un diritto alla morte, è anche vero che non è facile, per coloro che attualmente non riescono a cogliere il senso della vita, che non hanno più speranza, e non vogliono soffrire, negare la possibilità di pensare al suicidio come via logica per esprimere la propria autonomia. Proprio partendo da queste considerazioni è maturata l’esigenza di accendere la luce, di fare un po’ di chiarezza su alcune realtà fondamentali accessibili semplicemente con la ragione oltre che con la fede. È proprio vero che togliersi la vita è un atto di coraggio? Un atto di libertà? Un atto di autonomia?

 

Per trovare la risposta è necessario entrare nel mistero. La vita, la morte, il dolore sono realtà misteriose che si vanno svelando mano a mano che sono sperimentate. Il primo atto di autocoscienza che ogni essere umano è chiamato a fare è quello di riconoscere di aver ricevuto la vita come un dono d’amore. Il filosofo Mounier afferma che il nuovo principio antropologico è: «Amo dunque sono».

Se la vita è un dono e si realizza nell’amore fino al dono totale di sé, come afferma la psicologia, allora si comprende che il senso del vivere, del realizzare la propria personalità è quello di ridonarla, di fare un dono a quelli della tua famiglia, ma poi alla società e all’umanità intera. Questa luce può illuminare tutti gli istanti della vita anche quelli di limite e di dolore. Rimane vero che la natura umana non è fatta per il dolore ma per la felicità, ma è altrettanto vero che la vita senza il dolore non esiste. Si tratta di scoprirne la funzione e trovare il modo di assumerlo e integrarlo per la propria maturazione.

 

Il dolore fa crescere la persona in una dimensione più grande di amore, come la potatura fa crescere l’albero. Se un seme non accettasse di marcire e così donare centuplicata la vita che contiene che cosa succederebbe? E’ il paradosso che avvolge il mistero della vita umana.

E ancora: il pensiero che il togliersi la vita è un atto di libertà, è legato al concetto che la libertà è la possibilità di fare ciò che si vuole. Ora questo tipo di libertà non è mai esistita e non esisterà mai nella realtà. Ognuno ha la possibilità di sperimentare la vera libertà nel cogliere il proprio dover essere e nella capacità di fare le scelte che portano alla propria realizzazione. Ora, se la persona si realizza nell’amore, nell’essere dono totale di sé, si capisce che la libertà non può esprimersi nel non amore, nell’interrompere la possibilità di essere dono.

 

Si tratta di avere il coraggio morale di non accettare acriticamente quanto è diffuso dai media come fosse la verità senza prima confrontarsi sia con la verità che secondo Agostino abita in noi, sia con chi ha la grazia di aiutarci a scoprire insieme la verità.

Certo chi ha il dono della fede sa in partenza che Dio è Amore e ha donato la vita per amore, che ciascuno è responsabile del dono ricevuto e può nella libertà realizzare il progetto d’amore che Dio ha fatto su ciascuna persona e sull’umanità; in questo disegno anche i limiti, le difficoltà e le sofferenze acquistano un senso per crescere nell’amore. Allora tutto diventa più accettabile, più comprensibile, più vivibile.

 

Riguardo al problema della salvezza di chi si toglie la vita mi sembra illuminante la risposta che il santo curato d’Ars diede ad una signora preoccupata per suo marito che in un momento di disperazione si era gettato dal ponte. Il santo le disse: «Tra il ponte e l’acqua c’è la misericordia di Dio».

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